Troppo spesso la gestione avventuristica del rischio da parte di imprese private e pubbliche ha portato a tragedie e sentenze di condanna. Ma questo non è servito a evitare che il Tap venisse approvato senza la partecipazione informata dei cittadini come impone la Direttiva Seveso

Il Tap non è un tubo del gas. È l’autobiografia politica di questa Italia. Dal governo Monti, a Letta, Renzi e Gentiloni. Che del gas hanno fatto l’unica voce di una politica industriale che tale non è. Non è sviluppo e non è autonomia energetica, non è l’Eni di Enrico Mattei che cercava ad ogni costo forza energetica per l’Italia in macerie da ricostruire. Il Trans adriatic pipeline è un grande affare. È la base del progetto dichiarato di Snam di farsi snodo commerciale del gas per l’Europa, che deve affrancarsi dal gas russo. Lo dicono ovunque. Giornali, radio e tv. Con l’ineffabile ministro Calenda a sciorinare, in quel salotto televisivo dove si firmarono contratti farseschi, i meriti del gasdotto per lo sviluppo della nazione. Perché si sappia che chi il gas non lo vuole non è europeo e umilia l’Italia. È il solito fanatico che il tubo del gas non vuole che passi per le sue spiagge. Tra i suoi ulivi. Sulla identità di popolo, quello pugliese, che già ne ha viste troppe. Che respira, chiuso nel ricatto di morte o lavoro, le polveri ferrose dell’Ilva e i fumi del carbone di Cerano. Che sa di non potersi fidare della politica, che non ha argomenti e non ha alternative al gas, perché un «tubo non può fare paura». Il metano è pulito. Come la coscienza di chi la democrazia la sta soffocando nella retorica dell’Europa e nella violenza di muri e filo spinato issati sui fianchi di una cittadina militarizzata, in cui il diritto è stato torto perché al tubo si possa lavorare senza intralci e senza che nessuno veda.

Ma la coscienza civile di una cittadinanza e di qualche scienziato eminente non accetta. E guarda oltre il muro, chiede trasparenza e argomenta dei rischi per la vita di quei cittadini. A Melendugno, nel Salento, dove approderà il Tap: un metanodotto, il tratto finale di un progetto da 45 miliardi di dollari e lungo quasi 4mila chilometri, il Southern gas corridor, che porterà dall’Azerbaijan in Italia fino a 20 miliardi di metri cubi di gas, attraversando sei Stati per poi passare sotto il fondale marino e approdare nelle campagne di Melendugno. Dove accoglierà il gas un terminale di ricezione che ne varierà la pressione e lo spingerà ancora nel tubo interrato tra gli olivi (10.000 olivi da espiantare e al meglio reimpiantare), in un tunnel (che si dice micro ma ha tre metri di diametro) per 55 chilometri, fino a congiungersi con la rete di Snam. Nel 2013 il Tap è stato approvato dalle autorità europee come progetto di interesse comunitario, per favorire la diversificazione delle fonti da cui l’Europa si approvvigiona rendendosi così più autonoma soprattutto da quelle russe. Una litania europea questa della dipendenza dal gas russo, che per quanto evidente nei dati non appare però preoccupare la Germania, impegnata nel raddoppio del gasdotto russo North Stream, ora rallentato ma per far posto all’ipotesi di portare in Europa sempre il gas russo attraverso Turkish Stream e lo stesso Tap. Quanto all’Italia, pur spiccando per importazioni di gas, è tra i Paesi europei meno dipendenti dalla Russia e già oggi con consumi inferiori all’approvvigionamento, tant’è che le esportazioni di gas, a giugno del 2017, sono aumentate in un anno del 78,3%.

Non a caso Snam ha subito tranquillizzato l’agitatore Calenda che a reti unificate già dichiarava lo stato di emergenza energetica in occasione dell’incidente nella centrale austriaca da cui transita il gas russo: l’Italia con le sue eccedenze non poteva rischiare il buio e il freddo, ma al ministro non è parso vero di poter accomodare la realtà per affermare che proprio a fronteggiare future emergenze occorrerà Tap. Su cui almeno Snam non dissimula. Nei suoi piani afferma di puntare sulla commercializzazione del gas verso l’Europa. Quello di Tap e poi quello del gasdotto Poseidon pure previsto in Puglia, e l’attesa del più grande giacimento mediterraneo di gas scoperto da Eni in Egitto e, ancora, la Sardegna che si candida nei piani del ministro Calenda ad essere con Malta l’hub per il rifornimento marittimo del gas. Per tutto questo Snam già lavora al raddoppio del metanodotto che taglia l’appennino centrale. Un fiume di gas attraverserà l’Italia. Senza fare i conti né con quello che accadrà nella transizione energetica verso le rinnovabili né con gli italiani. Quegli italiani che non la bevono. E che preoccupano il ministro Calenda, il quale ha dichiarato che «la prossima legislatura si deve porre il problema di una clausola di supremazia per superare i veti degli enti locali di fronte a interessi nazionali». Supremazia solo apparentemente, e già sarebbe discutibilissima, da esercitare sui veti politici. Perché in realtà la supremazia si vuole esercitarla, come già accade per Tap, sui diritti costituzionali a tutela della salute e della vita di cittadini ai quali è imposta la realizzazione di un’attività privata bollata di interesse strategico.

In nome del quale si sono attuate procedure opache per l’approvazione del progetto del terminale di ricezione a Melendugno, che scienziati come Umberto Ghezzi del Politecnico di Milano, affermano possa comportare rischi gravissimi per la popolazione; quello stesso terminale di ricezione che con singolare affanno, come ben raccontato da L’Espresso (5 settembre e 2 ottobre), ministri solerti hanno sottratto all’applicazione della normativa Seveso, che avrebbe imposto elevati vincoli di sicurezza e la partecipazione informata delle popolazioni. Eppure gli incidenti, e il caso recentissimo dell’Austria lo dimostra, accadono. Allora è tempo si comprenda che i no Tap del Salento, non sono ambientalisti insurrezionalisti che vorrebbero spostato altrove l’approdo del gasdotto. Sono cittadini informati e consapevoli dei rischi del progetto. A Melendugno come altrove. Perché in Italia troppo spesso la gestione avventuristica del rischio da parte di imprese private e pubbliche ha portato a tragedie e sentenze giudiziarie di colpevolezza, come accaduto per Thyssen a Torino o per Ferrovie a Viareggio. A fallire sono i controlli e la prevenzione da parte dello Stato. Specie poi se il controllato e il controllore coincidono, quando pubblica o considerata tale è l’impresa. Come per Tap, opera di interesse strategico partecipata da Snam per il 20%. Tutto questo a Melendugno lo sanno. I muri alzati dal governo intorno al cantiere non riescono a nasconderlo. Ed intanto questi cittadini sono il volto inatteso di un nuovo Mezzogiorno. Non familismo socialmente disgregante ma bene comune, riconosciuto nel diritto alla tutela della salute e dell’ambiente. Come era accaduto per i cittadini contrari alla Tav, tra le montagne in cui il bene comune era regola e fu lotta partigiana e poi risposta informata alla forza del governo. Ora accade con i cittadini contrari a Tap. Ma al Sud. E questo sgomenta una politica che reclama supremazia e si candida a governare ancora questa Italia.

L’editoriale di G. Massimo Paradiso è tratto da Left in edicola


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