Laura Silvia Battaglia ha intervistato per Left alcuni giovani attivisti di Mwatana, l'organizzazione che da Sana'a tiene il conto di tutte le violazioni compiute nella guerra che sta devastando l’antica Arabia felix. Sono loro che hanno consentito al New York Times di portare a termine l’inchiesta da cui è emerso che le bombe sganciate dai sauditi sui civili sono di fabbricazione italo-tedesca

La prudenza non è mai troppa ma Osama al-Fatkih e gli altri dieci attivisti dell’organizzazione Mwatana prima di chiudere la porta del loro ufficio a Sana’a, sanno bene quali sono i rischi per loro: irruzione delle milizie Houti, confisca di hard disk e materiali, rapimento, arresto arbitrario e possibile uccisione. A questi rischi più vicini e immediati, se ne aggiungono altri che non sono inferiori: morte per un bombardamento sui luoghi di rilevazione degli attacchi sauditi, sia a Sana’a, che nelle altre località del Nord dello Yemen; detenzione ai check point, incidenti non accidentali, rapimenti da parte di milizie salafite o qaediste nel Sud.

Per loro e per i 26 attivisti dell’organizzazione sul campo in tutte le altre città dello Yemen, si tratta di una scelta radicale, ed è questa: rimettere insieme pezzi di verità e raccontare la cronaca della guerra, prima che il tempo insabbi la Storia con le sue prove schiaccianti. Gli attivisti di Mwatana sono tra coloro senza i quali l’inchiesta del New York Times sulle bombe di fabbricazione italo-tedesca, lanciate sul Nord dello Yemen dalla coalizione a guida saudita, non sarebbe mai stata portata a termine. Senza la rilevazione del codice A447 sulle bombe sganciate nelle località yemenite, non si sarebbe giunti a una attribuzione precisa. E quel codice non può essere fotografato o rilevato se non da attivisti sul posto. Così come i certificati di nascita o le carte di identità delle vittime.

«Una delle problematiche dell’attivismo, in Yemen, al momento, è il problema all’accesso a informazioni non polarizzate, non schierate – spiega Osama -. La ragione del nostro successo e, credo, anche del fatto che ancora non ci abbiano fatto fuori, è che diamo fastidio a tutti e, allo stesso tempo, siamo utili a tutti. Entrambe le parti in guerra hanno interesse affinché si conoscano le violazioni sui diritti umani degli opponenti. Certo, non nascondo che per noi è come vivere in un senso di precarietà e di pericolo costanti. Cambiamo sede e ufficio spesso, lavoriamo su un ambiente informatico criptato, facciamo sistematicamente sparire faldoni e hard disk. Lavorare in Yemen è come camminare su un tappeto di mine. È faticosissimo, ma è meglio che fare gli struzzi». Il team di Mwatana ha infatti randellato le parti in guerra senza fare sconti a nessuno. Il lavoro…

Il reportage di Laura Silvia Battaglia prosegue su Left in edicola


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