La vicenda di Cavatassi condannato a morte in Tahilandia e di oltre tremila italiani detenuti nelle prigioni di tanti Paesi del mondo chiede impegno da parte dello Stato. L'allarme lanciato da Luigi Manconi, Riccardo Noury e altre associazioni umanitarie

“La vicenda di Cavatassi non deve rimanere in quella folla anonima di oltre tremila italiani detenuti nelle prigioni di tanti Paesi del mondo”, dichiara a Left, il presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani e direttore dell’Unar, Luigi Manconi, sulla vicenda di Denis Cavatassi, detenuto in Thailandia con l’accusa di essere il mandante dell’uccisione del suo socio in affari.
Troppo facilmente giustiziati e con processi penali iniqui, sono almeno tremila i cittadini italiani che, come Cavatassi, vivono il dramma della detenzione all’estero in luoghi orribili di privazione della libertà. “Detenuti spesso senza un avvocato, senza collegamenti con l’Italia, senza rapporti con le nostre rappresentanze all’estero. E’ una situazione drammatica e, nella gran parte dei casi, non risolvibile”, continua Manconi.
Nonostante la diversità dei casi, ad accomunare i detenuti italiani all’estero è la grave violazione dei diritti umani. Per esempio “Denis Cavatassi è vittima di almeno tre violazioni dei diritti umani: ha subìto un processo non in linea con gli standard internazionali sull’equità dei procedimenti giudiziari; è detenuto in condizioni che possono equivalere a trattamento crudele, inumano e degradante; infine, ha sulle spalle una condanna a morte emessa in primo grado e confermata in appello”, precisa il portavoce di Amnesty International, Riccardo Noury.
Violazioni sistematiche dei diritti processuali che, secondo l’associazione Prigionieri del Silenzio, fanno della detenzione degli italiani nelle carceri dei paesi esteri, un grave “problema sociale”. Sottoposti a umiliazioni e condizioni di vita incompatibili con un concetto di riabilitazione, questi detenuti sono prigionieri di insormontabili difficoltà. Per esempio, di comunicazione: nonostante la presenza di uffici consolari, questi sono, spesso, collocati a grande distanza dai luoghi di detenzione e la comunicazione con i propri legali o le famiglie diventa quasi impossibile. A ciò si aggiungono criticità linguistiche, se si considera che la documentazione riguardante arresto, accuse, eventuali confessioni è redatta esclusivamente nella lingua locale.
Un’incomprensione che li penalizza, anche, all’interno della realtà carceraria nei rapporti con il personale di controllo e con gli altri detenuti. Tutti in una condizione di sovrappopolamento con conseguenti situazioni di promiscuità sessuale, scarse condizioni igienico-sanitarie e alto tasso di violenza tra i reclusi. Oltre alla pressoché nulla assistenza sanitaria. E c’è un problema, spesso trascurato, che è la discriminazione di cui sono vittime i detenuti italiani nelle carceri straniere: soffrono, a seconda del Paese in cui vengono arrestati, degli stereotipi che, negli anni, si sono radicati nella mentalità di quello Stato, influenzandone notevolmente lo stato di detenzione nonché la loro sopravvivenza carceraria.
Ed è un problema sociale anche perché la maggior parte di loro non può contare sul sostegno economico delle famiglie che dovrebbero far fronte a spese legali corrispondenti a un ordine di grandezza superiore rispetto alle proprie realtà economiche. E’ in gioco la sovranità dell’Itlaia che, secondo l’associazione Prigionieri del Silenzio, non solo “dovrebbe mettere a punto un piano preciso per la salvaguardia economica degli italiani in stato di fermo o detenzione in paesi europei o extraeuropei” ma anche intervenire in tutti i modi possibili, soprattutto sotto il profilo politico, per garantire l’incolumità dei suoi cittadini.
“Quando uno spiraglio si apre – conclude Manconi – lì bisogna intervenire con la massima energia perché non si richiuda e, al contrario, si possa aprire un varco. E’ il caso di Denis Cavatassi, condannato a morte in Thailandia, del quale la Corte suprema deciderà la sorte nei prossimi mesi. La mobilitazione finalmente attivata in Italia e un rinnovato interessamento del ministero degli Esteri, alimentano una qualche, se pur esile, speranza”. E’ necessario perciò che “la Farnesina segua con alta priorità questa vicenda e utilizzi tutti i mezzi diplomatici a sua disposizione per favorire l’annullamento della condanna a morte”, aggiunge Amnesty International. Perché non si può morire per una condanna. E nemmeno rimanere prigionieri dell’indifferenza.