L’ambientalista iraniano Kavous Seyed Emami, morto due giorni fa nella prigione di Evin a Teheran, si è suicidato perché le prove di spionaggio contro di lui erano schiaccianti. O, almeno, è questa è la versione ufficiale delle autorità iraniane e del giudice Abbas Jafari Dolatabadi: «ha commesso suicidio in prigione perché sapeva che molti avevano testimoniato contro di lui, lui stesso aveva confessato».
Parole che descrivono una spia, che si sarebbe tolto la vita per la vergogna. Ma l’intellettuale ed accademico Emami, 63 anni, doppio passaporto, – canadese ed iraniano -, era un professore di sociologia all’università Imam Sadigh, fondatore della Persian Wildlife Heritage Foundation. Era stato arrestato il mese scorso, il 24 gennaio, e trasferito nella prigione di Evin, dove nel 2003 la fotografa iraniana canadese Zahra Kazemi, 54 anni, è morta dopo essere stata arrestata solo per aver scattato delle fotografie. Emami aveva combattuto nella guerra contro l’Iraq, per diventare poi, strenuo difensore dell’ambiente del suo Paese.
Il figlio di Emami, il musicista Ramin, insieme a molti altri attivisti, non crede che si sia tolto la vita. Cominciano a porre interrogativi sulla sua morte anche i membri dell’Associazione dei sociologi iraniani. Ali Shakourirad, a capo del Partito dell’Unione islamica riformista, ha ribadito che questa morte «solleva molte domande e preoccupazioni pubbliche».
Questa non è la prima morte sospetta, bollata come suicidio, tra i detenuti delle carceri persiane. Due manifestanti iraniani, arrestati durante le recenti proteste che hanno scosso il Paese il mese scorso, sono morti in cella e anche in quel caso, la spiegazione ufficiale delle autorità è stata: “suicidio”. I familiari, insieme ai loro avvocati, hanno chiesto un’indagine indipendente per una verità altra, che credono non assomigli a quella ufficiale delle toghe.
Si continua a morire a Teheran. La repressione continua. Quello di Emami non è stato il primo arresto tra la comunità accademica degli ecologisti iraniani. Sette persone sono state ammanettate la settimana scorsa per aver fornito informazioni classificate «sotto la copertura di progetti ambientalisti e scientifici», perché, riferiscono le autorità, le loro ricerche nei siti erano in realtà una copertura «per attività di spionaggio». Dopo le preoccupazioni espresse da Antonio Guterres e dall’Onu sulla vicenda, sono arrivate quelle del Center for Human Rights in Iran: «il sistema giudiziario è fuori controllo, sta collaborando a coprire la verità».