In uscita per la casa editrice Elèuthera, un racconto polifonico della più celebre «incendiaria» parigina. Ne “Il tempo delle ciliegie”, lo scrittore e musicista Marco Rovelli racconta l’epopea dell’anarchica Louise Michel, e il suo impegno nella Comune di Parigi, che pagherà con la deportazione in Nuova Caledonia. Vi proponiamo qui un estratto dell’opera:
[divider]Il tempo delle ciliegie[/divider]
Henri, giardiniere del castello di Vroncourt
Dicono che sia stata lei a incendiare Parigi. Le notizie qui a Vroncourt arrivano tardi, sempre che arrivino: ma stavolta pare che da Parigi un giudice abbia chiesto direttamente al sindaco informazioni su Louise. Dicono che a Parigi non si faccia che parlare di lei ovunque. L’incendiaria, dicono. Ma io non ci credo. Me la ricordo bene, Louise, al castello.
Chissà come deve star male chiusa dentro la cella della prigione. Me la ricordo bene, sapete, si doveva sempre correrle dietro per tenerla a bada, non poteva star ferma. Era attratta dal bosco. E dai lupi. Per i lupi aveva una vera e propria passione. Nel cortile del castello, che poi era una grande casa squadrata e tozza, con quattro torri agli angoli, arrivavano i lupi, d’inverno, durante le tempeste.
Ululavano nel cortile in mezzo alla neve, e Louise stava alla finestra, incantata, a cercare di decifrare le ombre. Ovvio, le facevano paura, a quale bambina non fanno paura i lupi? Ma era proprio quella paura a stimolarla. Era proprio per quella paura che li cercava. I lupi per lei non hanno mai rappresentato il Male, non c’erano lupi cattivi per lei. O meglio, c’erano, ma erano gli uomini-lupo, quelli che pur dotati di ragione facevano il Male. Che poi per lei il Male era una cosa semplice. Avere un pezzo di pane e non spartirlo con una bambina incontrata per la strada, quello era il Male. Non glielo aveva insegnato nessuno, era proprio qualcosa che aveva dentro dalla nascita. Chissà poi, io non sono istruito, so appena leggere e scrivere, non ne capisco di queste cose da filosofi . Ma che tipo era Louise, questo lo so bene.
Sua madre lavorava per i Demahis, come il sottoscritto. Il padre non venne mai rivelato. Ma noi lo sapevamo bene che era stato il figlio dei padroni, Laurent, a mettere incinta la serva. Marianne, che era proprio una bella ragazza, bionda con gli occhi azzurri. Louise non le somigliava, purtroppo. Sì, nei castelli della nobiltà era un fatto comune, la serva è una proprietà che si usa per apprendere certe arti amatorie: ma io me lo ricordo che tra Laurent e Marianne c’era stato del tenero. Forse fu per questo che lui se ne andò a vivere altrove, non poteva sposarla, ma non poteva continuare a convivere sotto lo stesso tetto, chissà. Io almeno me la sono sempre immaginata così. Qualcuno invece dice che fosse il padrone a essere il padre di Louise, ma io non ci credo. Fatto sta che furono Monsieur Étienne-Charles e Madame Charlotte a prendersi cura della piccola. La allevarono come una nipote, o una figlia se volete, le diedero un’educazione: erano nobili illuminati, loro, volterriani, laici. Le volevano bene. Vi dico, nei dintorni Louise era conosciuta come Mademoiselle Demahis. Mi ricordo che un giorno la figlia, che si era sposata e ogni tanto tornava al castello, si arrabbiò perché loro le facevano prendere lezioni di musica: «Ma siete impazziti», urlò, «si dimenticherà la sua posizione!». Insomma, Louise aveva una mamma e due nonni. Dalla mamma prese la devozione: Louise era molto religiosa, da piccola. Dicono che non lo sia più, ma io mica ci credo.
Il prato, sapete, ho spesso pensato che fosse quella la sua casa. Non era una ragazza da castello, Louise, per quanto sapeva sempre ben comportarsi, s’intende. Ma appena poteva andava a girare nei prati. C’erano un sacco di animali, attorno al castello. Cani, gatti – un sacco di gatti, che lei ci parlava di continuo! – e una vecchia asina che Louise e Monsieur Étienne seppellirono sotto un’acacia. E poi i cavalli che venivano nella corte, e lei gli dava sempre da mangiare… Mi ricordo che odiava il modo in cui i contadini trattavano gli animali, o gli altri bambini che si divertivano a torturarli.
Che se è vero che adesso la deporteranno in Nuova Caledonia come dicono, di sicuro per lei sarà molto meglio della prigione. Tra le foreste e i selvaggi, quello sarà un posto che amerà.
Sapete, mi toccò pure rimproverarla perché rubava frutta, e pure dei soldi, al castello, per darli a dei bambini che secondo lei ne avevano bisogno… Li vedeva vestiti male, scalzi, e allora andava da loro e gli diceva: «Prendi». Io un paio di volte la afferai e la feci rientrare, ma poi non me la sentii, lasciai che facesse i suoi regali. Certo che quella volta che tornò senza le scarpe perché le aveva date a un povero, beh quel giorno anche i suoi nonni si arrabbiarono.
Mi spiace non potermi immaginare tutto quello che avrà sofferto in questo periodo. Se potessi, andrei da lei e me la abbraccerei. Ormai sono alla fine, ma prima di morire mi sarebbe piaciuto rivederla e riabbracciarla. Temo che dovrò morire senza averlo fatto, però. (….)