La pelle in cui viviamo, la nostra barriera difensiva ma anche mezzo di contatto e calore e la capacità della fotografia di fare da ponte tra noi e il mondo. Tutto questo è stato “The skin I live” - quinta edizione del Social Photo Fest, dal 10 marzo all'8 aprile a Perugia. L’interesse crescente per la fotografia intimista e la nascita di numerosi progetti personali di tipo “diaristico” ci dicono che la ricerca interna, la messa a nudo nell’affrontare le assenze, gli affetti e la memoria non sono esigenze creative del singolo fotografo, ma diventano ricerca comune, di artisti e fruitori, in uno scambio continuo di significati e sensazioni. La fotografia, come la pelle, si colloca in una linea di confine tra la nostra realtà corporea e interiore e il resto del mondo. Diversamente da altri ambiti fotografici, dove la spasmodica ricerca di perfezione tecnica supera a volte il contenuto stesso dello scatto, nel mondo della fotografia intimista la tecnica perde d’importanza, diventando funzionale al messaggio. Non ci sono formule o schemi predefiniti da seguire, non ci sono regole o limiti ma flussi di dialoghi. Ne è esempio “Fur mich” (per me) complesso lavoro della fotografa
Sina Niemeyer, in cui foto, scrittura e collage creano un racconto doloroso e frammentato verso l’accettazione del proprio corpo dopo una violenza subita. Non esiste una check list, una spunta delle cose che una fotografia può significare, perché i fattori che entrano in gioco nella comprensione sono molteplici e vanno a toccare le corde profonde dell’Io: il senso di un’immagine sarà svelato nel motivo per cui ho fotografato una determinata cosa, in quale modo e nel perché voglio mostrarla agli altri. E il modo in cui gli altri la leggono, il significato creato dall’osservatore durante il processo di percezione o “foto proiezione”, aprirà a sua volta nuovi canali interpretativi. Anche questa è fotografia. O forse è proprio questa la sua essenza più profonda. Non è mestiere, non è tecnica. E’ estensione di sé, del proprio essere sommerso e ha la capacità di unire chi fotografa con il mondo esterno grazie ad un processo di introiezione prima e di estroversione poi, in una dinamica “dentro-fuori” tipica di questo mezzo. Le fotografie parlano di noi, di tutti noi, di chi siamo, di come amiamo, soffriamo e ricordiamo. Sono grandi vasi di Pandora da cui scaturiscono risate, odori e sapori. Ne è un esempio il progetto fotografico “Notes for a silent man” di Emanuele Camerini: "La fotografia mi diede la possibilità di affrontare di petto una questione molto intima e delicata che evitavo da anni, la relazione tra me e mio padre. Non riuscendo dunque a veicolare a parole le difficoltà che percepivo nei suoi confronti, i miei sentimenti verso di lui, la mia richiesta di una presenza paterna, la fotografia è divenuta mezzo di espressione attraverso il quale comunicare con lui...". L’intento era quello di mostrare a mio padre luoghi a lui familiari da una prospettiva adulta, matura, e non più da figlio incapace di muovere i suoi passi nel mondo”. Il fotografo si mette in discussione cercando di affrontare, attraverso la fotografia, temi come quello dell’assenza, della malattia, dell’affetto e della memoria, che spesso non è in grado di risolvere in maniera diversa. Ma è anche il modo in cui l’artista concretizza con mezzi “adulti” il suo bisogno di giocare e di immaginare in piena libertà.
La fotografia non è efficace quindi soltanto nel disagio ma viene oggi largamente impiegata, come strumento ‘facilitatore’ e di supporto, all’interno di contesti comunitari (scuole, corsi di formazione, centri sociali...), allo scopo di aiutare le persone a diventare maggiormente consapevoli di alcuni aspetti della propria personalità e dei propri modi di essere diventando così, fotografia ad azione sociale. Le fotografie possono davvero cambiare il mondo, anche se il mondo è circoscritto a un solo corpo. “La fotografia può essere uno strumento per dare un senso a ciò che sta accadendo nel mondo, ma anche dentro di noi”, afferma Katharina Bauer, autrice del progetto “+Youme”.
La fotografia intimista non parla solo di “quel corpo”, di “quella famiglia”, di “quella storia”, ma delle nostre. Narrare la propria storia, e permettere agli altri di proiettarvi la propria: questa è la grande capacità di fare arte e fotografia.
La pelle in cui viviamo, la nostra barriera difensiva ma anche mezzo di contatto e calore e la capacità della fotografia di fare da ponte tra noi e il mondo. Tutto questo è stato “The skin I live” – quinta edizione del Social Photo Fest, dal 10 marzo all’8 aprile a Perugia. L’interesse crescente per la fotografia intimista e la nascita di numerosi progetti personali di tipo “diaristico” ci dicono che la ricerca interna, la messa a nudo nell’affrontare le assenze, gli affetti e la memoria non sono esigenze creative del singolo fotografo, ma diventano ricerca comune, di artisti e fruitori, in uno scambio continuo di significati e sensazioni. La fotografia, come la pelle, si colloca in una linea di confine tra la nostra realtà corporea e interiore e il resto del mondo. Diversamente da altri ambiti fotografici, dove la spasmodica ricerca di perfezione tecnica supera a volte il contenuto stesso dello scatto, nel mondo della fotografia intimista la tecnica perde d’importanza, diventando funzionale al messaggio. Non ci sono formule o schemi predefiniti da seguire, non ci sono regole o limiti ma flussi di dialoghi. Ne è esempio “Fur mich” (per me) complesso lavoro della fotografa Sina Niemeyer, in cui foto, scrittura e collage creano un racconto doloroso e frammentato verso l’accettazione del proprio corpo dopo una violenza subita. Non esiste una check list, una spunta delle cose che una fotografia può significare, perché i fattori che entrano in gioco nella comprensione sono molteplici e vanno a toccare le corde profonde dell’Io: il senso di un’immagine sarà svelato nel motivo per cui ho fotografato una determinata cosa, in quale modo e nel perché voglio mostrarla agli altri. E il modo in cui gli altri la leggono, il significato creato dall’osservatore durante il processo di percezione o “foto proiezione”, aprirà a sua volta nuovi canali interpretativi. Anche questa è fotografia. O forse è proprio questa la sua essenza più profonda. Non è mestiere, non è tecnica. E’ estensione di sé, del proprio essere sommerso e ha la capacità di unire chi fotografa con il mondo esterno grazie ad un processo di introiezione prima e di estroversione poi, in una dinamica “dentro-fuori” tipica di questo mezzo. Le fotografie parlano di noi, di tutti noi, di chi siamo, di come amiamo, soffriamo e ricordiamo. Sono grandi vasi di Pandora da cui scaturiscono risate, odori e sapori. Ne è un esempio il progetto fotografico “Notes for a silent man” di Emanuele Camerini: “La fotografia mi diede la possibilità di affrontare di petto una questione molto intima e delicata che evitavo da anni, la relazione tra me e mio padre. Non riuscendo dunque a veicolare a parole le difficoltà che percepivo nei suoi confronti, i miei sentimenti verso di lui, la mia richiesta di una presenza paterna, la fotografia è divenuta mezzo di espressione attraverso il quale comunicare con lui…”. L’intento era quello di mostrare a mio padre luoghi a lui familiari da una prospettiva adulta, matura, e non più da figlio incapace di muovere i suoi passi nel mondo”. Il fotografo si mette in discussione cercando di affrontare, attraverso la fotografia, temi come quello dell’assenza, della malattia, dell’affetto e della memoria, che spesso non è in grado di risolvere in maniera diversa. Ma è anche il modo in cui l’artista concretizza con mezzi “adulti” il suo bisogno di giocare e di immaginare in piena libertà.
La fotografia non è efficace quindi soltanto nel disagio ma viene oggi largamente impiegata, come strumento ‘facilitatore’ e di supporto, all’interno di contesti comunitari (scuole, corsi di formazione, centri sociali…), allo scopo di aiutare le persone a diventare maggiormente consapevoli di alcuni aspetti della propria personalità e dei propri modi di essere diventando così, fotografia ad azione sociale. Le fotografie possono davvero cambiare il mondo, anche se il mondo è circoscritto a un solo corpo. “La fotografia può essere uno strumento per dare un senso a ciò che sta accadendo nel mondo, ma anche dentro di noi”, afferma Katharina Bauer, autrice del progetto “+Youme”.
La fotografia intimista non parla solo di “quel corpo”, di “quella famiglia”, di “quella storia”, ma delle nostre. Narrare la propria storia, e permettere agli altri di proiettarvi la propria: questa è la grande capacità di fare arte e fotografia.