«Il termine femminicidio non ha una valenza giuridica», esiste però su un piano mediatico e dunque culturale. Lo ricordava lo psichiatra Martino Riggio al convegno Muore una donna per mano di un uomo, il 5 maggio in Campidoglio. Si parlava di violenza sulle donne, diritti negati, incredulità, ma anche dei radicali cambi di prospettiva necessari a inscrivere fenomeni come questi nella coscienza collettiva. Come risposta a ogni dichiarazione, i curatori – gli animatori di Blue Desk, agguerrito spazio culturale indipendente della Capitale – hanno proposto un’esperienza estetica.
Lo spettacolo Nessuno può tenere Baby in un angolo (al Teatro Villino Corsini), scritto da Simone Amendola (insieme a Sandro Torella) per la lacerante presenza scenica di Valerio Malorni, è un horror esistenziale, un viaggio nero dentro la responsabilità individuale.
In questo Delitto e Castigo per voce sola, l’omicidio di una donna non è il tema centrale, invade la coscienza del pubblico con la stessa nebulosa insistenza con cui travolge il protagonista, un benzinaio apparentemente innocente accusato del fatto. Un monologo serrato, brutalmente portato in gola tra esplosioni di furia e sinistri accessi di ironia da un attore che, prima di essere personaggio, è cassa di risonanza per un grido d’aiuto.
Sul palco quasi spoglio c’è la parola, ma questo teatro è soprattutto corpo: la semantica passa in un filtro organico fatto di sudore e piccoli movimenti isterici.
Interrogato da una voce off, Luciano cerca di scagionarsi facendo appello alla memoria di una serata come tante, durante la quale mai avrebbe potuto decapitare una donna, lasciarne lì il corpo come “insieme di organi” separato da una testa infilata in un sacchetto di plastica. Si assiste però al processo di erosione di una coscienza: i ricordi cambiano, il dubbio sulla colpevolezza diviene la certezza della colpa, quella di aver lasciato che una delusione affettiva impedisse all’imputato di salvare la stessa vittima.
Se il termine “femminicidio” esiste è anche perché i media influenzano le coscienze, soprattutto quelli partecipativi, esplosi in un’orizzontalità dove le opinioni si sfrecciano accanto, sviando il confronto critico. E così allontanando il fatto discusso dalla realtà e dalle categorie culturali che esprime. Allora il teatro, reame immaginifico che però si nutre di una vera comunità, è l’occasione per una messa in crisi.
In questo processo, carnefice e vittima si fondono: il “guardarsi vivere” di uomo semplice muta in una feroce indagine sulle ragioni dell’umano, costruzione razionale che crolla all’affiorare di una rabbia cieca. Lo spettatore (crudele) testimone, si aprono voragini esistenziali che rendono possibile tutto: una candida ricerca d’amore e il più cruento degli atti.
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale, editor e traduttore. Ha studiato Teatro e Arti Performative alla Sapienza. Università di Roma, dove sta svolgendo un dottorato di ricerca in studi teatrali incentrato sulla critica delle arti performative, e si occupa di arti performative su Teatro e Critica. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale.