Ha ventiquattr’anni Rudra Bianzino e da dieci cerca di capire perché suo padre è morto in una cella, anche se il caso è stato archiviato nel 2009. Rudra è il figlio di Aldo, arrestato il 12 ottobre 2007 e trovato morto alle 8 del mattino due giorni dopo. Aveva 43 anni e viveva a Pietralunga nell’Alta Valtiberina. Left ha potuto leggere le carte con cui Rudra è tornato a chiedere al Tribunale di Perugia nuove perizie e la riapertura di un caso finora derubricato a omissione di soccorso costata nove mesi di condanna a un agente di polizia penitenziaria.
Rudra è uno dei nomi di Shiva. I suoi s’erano conosciuti in una notte di canti e balli sul Trasimeno. Me lo raccontò Roberta Radici, la madre di Rudra, scomparsa anche lei un anno dopo, arrestata con Aldo quel venerdì mattina quando sulla collina arrivarono i poliziotti in borghese e il finanziere con il cane. Erano le sette e mezza. S’erano portati i panini, sarebbe stata una perquisizione minuziosa. Col piede di porco sollevarono perfino le assi di legno del pavimento e profanarono la tomba di un cagnolino avvelenato dal morso di una vipera. Finché i segugi fiutarono una quarantina di piante. Il verbale recitava: “piante di hashish”, come dire “alberi di marmellata”. Era solo “canapone”, cannabis indiana poco pregiata, quasi tutte inutili piante maschio.
Alto, magro, barba e occhialini, Aldo era arrivato in Umbria dal Piemonte ma passando per l’India come altri della sua generazione credendo che si potesse vivere in pace facendo l’ebanista e suonando il corno rituale di Babaji. Cercava l’India, Aldo, ma lo ha trovato la Fini-Giovanardi che non fa distinzione tra canapone ed eroina, tra autocoltivazione e narcomafie, proprio quando Perugia, più a valle, è una piazza di spaccio cruciale, da record di morti per overdose.
Le nuove carte smontano la versione ufficiale. «Abbiamo scoperto che le lesioni epatiche risalgono a due ore prima della morte – dice a Left, Cinzia Corbelli, uno dei legali di parte civile – e sono sovrapponibili a quelle cerebrali». L’archiviazione si basa, invece, su una perizia che attribuiva le lesioni al fegato a maldestre manovre rianimatorie e faceva risalire la morte a un’insufficienza cardio-respiratoria dovuta a una massiva emorragia subaracnoidea causata da un aneurisma cerebrale. Eppure il preliminare di relazione di consulenza tecnica medico legale, il 17 ottobre di dieci anni fa, segnalava “evidenti lesioni viscerali di natura traumatica”, diceva di due costole rotte e della milza spappolata. «Ma allora perché non ci sono lesioni allo sterno? E perché nell’immediatezza si disse di pestaggio “particolare”, effettuato con tecniche militari, quelle che non lasciano segni esterni ma spappolano gli organi interni? – si chiede Rudra parlando con Left – quello che mi fa più rabbia, che è inaccettabile, è che mi sono dovuto sobbarcare quello che avrebbe dovuto fare lo Stato per provare a capire cosa sia successo dentro le mura di un carcere».
Le telecamere a circuito chiuso, puntate su quella cella numero 20 della sezione 2/B, non fornirono alcun elemento e i testimoni, subito trasferiti per “ragioni di sicurezza”, avevano detto che Aldo chiese aiuto. «Fatti i cazzi tuoi – si sarebbe sentito rispondere – aspetta domani». Il giorno 13 era stato due volte in infermeria ma fu annotata una sola delle visite. E per un’ora fu portato all’ufficio comando. Roberta Radici cercò di ricostruire quello che era successo. Era stata rilasciata il mattino dopo. Il viceispettore capo del carcere sembrava preoccupatissimo di sapere come stesse Bianzino, se soffrisse di cuore, se già avesse avuto svenimenti. «Lo possiamo ancora salvare». Ma era una beffa, suo marito era già morto. «Ma quando lo potrò rivedere?», «Signora, martedì dopo l’autopsia». E’ così che venne a sapere della morte di Aldo.
Dopo il blitz, Rudra era stato lasciato nella cascina solo, a 14 anni, con una nonna di 91. Tutto quello che gli restava era quella perizia imprecisa ma che offriva ancora la possibilità di “datazione” delle lesioni sui reperti conservati un po’ a Padova, un po’ a Perugia. Così Luigi Gaetti, anatomopatologo mantovano, già vicepresidente dell’Antimafia quando era senatore dei cinquestelle, ha potuto appurare che le lesioni a fegato e cervello sono «sovrapponibili» e risalgono a due ore prima della morte. «Diverse le criticità emerse nell’analisi delle perizie – scrive – ripetute date sbagliate, incongruità dei numero dei preparati, errori (veniali) del campionamento dei vetrini, foto macro poco chiare, ricorrere a discutibili analisi sulle modalità rianimatorie per non prendere in considerazione ciò che il sapere scientifico aveva già dimostrato; tutti elementi che denotano una certa superficialità…».
Lo conferma Antonio Scalzo, medico legale a Cosenza, per il quale il decesso è frutto di “lesioni traumatiche determinate da terzi in carcere”, che è anche dovuto all’omissione di soccorso, che ci fu una palese violazione delle linee guida per il campionamento del fegato e «la contingenza gravissima» dell’«ingenuo smarrimento di materiale probatorio», oltre alle «evidenti contraddizioni» negli elaborati dei periti, «che non trovano conforto in alcuna legge di copertura». In sintesi, le «conclusioni discutibili (per usare un eufemismo!)» dei consulenti tecnici del pm, avrebbero «ostacolato la ricostruzione».
Perché l’aneurisma non l’ha mai visto nessuno, può succedere, ma manca una porzione del cervello. Sparita. «E secondo noi proprio lì sarebbero state evidenziabili le lesioni traumatiche», scrivono i consulenti di Rudra. Anche il sangue “spremuto” dal fegato non è stato riscontrato all’altezza degli archi costali ma al livello pelvico. Come se fosse stato rianimato un uomo in piedi piuttosto che steso a terra. Ma comunque le probabilità di lesioni riconducibili a una manovra di rianimazione, effettuata da una dottoressa «di corporatura estremamente esile», oscillano tra lo 0 e il 2% e riguardano solo persone obese o donne incinte.
«La lesione TRAUMATICA (il maiuscolo è di Scalzo, ndr) a carico del fegato» fu «senz’altro causata in vita e con azione contundente in diretta», «almeno due ore prima del decesso». «Un colpo violento impresso dal basso verso l’alto». Non mancano altri misteri come i buchi nelle videoregistrazioni o le «innumerevoli contraddizioni che hanno costellato l’esame testimoniale degli stessi agenti». E’ proprio quello che dovrebbe appurare un processo per rispondere alla domanda di Rudra: «Chi ha ucciso mio padre?».