L'inchiesta di Edoardo Montolli nel libro I diari di Falcone, Chiarelettere, affronta le agende elettroniche del giudice ucciso il 23 maggio 1992. Ne esce un quadro inedito con nuovi materiali e testimonianze

Nuovi scenari sulla strage di Capaci del 23 maggio 1992, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, come si legge nel libro di Edoardo Montolli  I diari di Falcone (Chiarelettere) uscito il 17 maggio e di cui pubblichiamo alcuni estratti

Le agende dimenticate
Giovanni Falcone annotava tutti i suoi impegni su due databank, due agende elettroniche tascabili. Apparecchi che restarono in voga per qualche anno, fin quando la loro funzione non fu sostituita dai cellulari. Quelle di Falcone vennero recuperate poco dopo la strage di Capaci. Una memoria esterna, su cui il giudice riversava i suoi appunti, scomparve per sempre. Ma nei processi, nonostante alcuni punti oscuri rilevati dai due consulenti che le analizzarono, le agende furono liquidate in fretta. Ne fu sminuita la portata. E vennero smentiti alcuni impegni che lui si era segnato e che apparivano su una di esse, risultata misteriosamente cancellata solo dopo il sequestro.
Passò tutto in secondo piano, come il fatto che, dopo la sua morte, qualcuno ne avesse letto i file sui computer al ministero, lasciandovi traccia.


L’indagine, d’altra parte, puntava a prendere gli assassini, i mafiosi che, per ucciderlo, il 23 maggio 1992 avevano fatto saltare in aria addirittura un’autostrada. Un’esplosione perfetta nei tempi e devastante nella portata, simile a un atto di guerra, che Cosa nostra non si era mai sognata di fare prima. E che in seguito non avrebbe più ripetuto. Per più di un paio di decenni, così, le copie cartacee del contenuto delle due agende sono rimaste sepolte negli archivi giudiziari, all’interno delle relazioni che ne fecero i consulenti, senza che fossero più studiate.

La campagna d’odio contro Genchi
Vi sono incappato nove anni fa, quando mi sono occupato di Gioacchino Genchi, vicequestore aggiunto palermitano e consulente di procure e tribunali di mezza Italia in alcuni tra i processi più delicati del paese, che era stato anche uno dei periti a occuparsi di quelle agende. L’altro, l’ingegnere Luciano Petrini, è stato ammazzato molto tempo fa, senza che sia mai stato preso il responsabile.
Genchi era stato consulente del pm Luigi De Magistris nell’inchiesta «Why Not». Era stato scritto e detto che aveva intercettato qualcosa come 350.000 persone. Bollato dall’allora premier Silvio Berlusconi come «il più grande scandalo della Repubblica». Accusato di avere un archivio segreto. Convocato dal Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, era stato indagato dalla Procura di Roma. Sospeso dalla polizia e successivamente destituito. Non era vero niente: negli anni a seguire i processi penali lo avrebbero visto definitivamente assolto e sarebbe stato reintegrato in polizia. Ma in quei mesi la vicenda occupava ogni giorno le prime pagine dei quotidiani. Lo conoscevo da qualche anno. Ne avevo scritto su alcuni settimanali per poi realizzarne un lungo ritratto su «L’Europeo». All’epoca dirigevo la collana di libri inchiesta «Yahoopolis» della casa editrice Aliberti. L’editore mi chiese così di scrivere un libro-intervista. Genchi non si capacitava della campagna d’odio imbastita nei suoi confronti. E voleva così non solo pubblicare gli atti dell’inchiesta che non gli avevano fatto terminare a Catanzaro, ma far conoscere a tutti il suo intero percorso professionale, che coincideva con le indagini sui veleni di Palermo e con quelle sulle stragi del 1992. Le sue mai concluse consulenze sulla strage di Capaci e su quella di via D’Amelio. Quando è uscito il libro Il caso Genchi c’è stato un diluvio di polemiche. Richieste di sequestro, cause civili e penali inoltrate da un gran numero di esponenti istituzionali. Da parte mia ho avuto tuttavia come la sensazione che, comunque la si vedesse, non fosse stato detto tutto sul suo lavoro.
Soprattutto per ciò che riguardava le indagini del 1992.
Ho cominciato così a riprendere in mano i contenuti dei due databank, che Genchi mi aveva consegnato insieme a gran parte del suo lavoro utile a stilarne una biografia. Raccontavano molto degli ultimi mesi del giudice, delle sue frequentazioni e delle sue amicizie: dettagli che, come le sue convinzioni su Cosa nostra, i suoi appunti e i suoi stessi verbali, erano stati interpretati in più modi, e mai presi alla lettera.
Ma, riguardandoli bene, studiandoli a fondo, i databank rivelavano anche altro.
Confrontandoli con l’agenda grigia di Paolo Borsellino – l’unica rinvenuta –, con gli eventi di quegli anni e con una lunga serie di atti processuali, ma anche con gli scritti e i verbali di Falcone, emergevano diversi nuovi misteri, a partire dalla genesi stessa della strage di Capaci e dal racconto che ne avevano fatto gli esecutori.

Qualcuno sapeva
Cos’accadde allora? È una domanda che continuo a pormi. Di certo, come si vedrà in questo libro, se vogliamo accettare l’idea che la strage di Capaci e quelle successive siano state esclusivamente opera di Cosa nostra, non dobbiamo solo ignorare le anomalie sui reperti informatici di Falcone e ciò che vi era scritto, non dobbiamo solo ritenere marginale ciò che accadde a Paolo Borsellino nei cinquantasette giorni in cui rimase ancora in vita, no.
Dobbiamo accettare anche che più di qualcuno sia stato in grado di leggere il futuro e trasformarsi in un infallibile veggente. Uno su tutti il pentito dei due mondi, Tommaso Buscetta, che, lontano da tantissimi anni dall’Italia e sotto protezione negli Stati Uniti, riuscì a prevedere gli attentati al nostro patrimonio artistico prima ancora che fossero ideati proprio dai suoi acerrimi nemici, con cui evidentemente non aveva contatti.
Un suo incontro con Falcone a Washington, un mese prima della morte del giudice, venne confermato da autorevolissimi esponenti istituzionali americani e italiani. Negli stessi giorni Falcone aveva annotato sull’agenda rinvenuta un viaggio negli Stati Uniti. Il viaggio fu smentito dal ministero e dalle autorità. Ma cosa avrebbe fatto in quei giorni nessuno lo disse mai.

Il libro I diari di Falcone di Edoardo Montolli, autore di diverse inchieste su fatti di cronaca e vicende politiche e giudiziarie in Italia, riguarda le verità nascoste dentro le agende elettroniche di Giovanni Falcone e recupera materiali che erano stati trascurati nelle inchieste della magistratura. Tra depistaggi, falsi testimoni e morti sospette, il libro traccia un quadro inedito sulla morte del giudice dimostrando come essa vada inserita all’interno di una più generale strategia di destabilizzazione che ha interessato il nostro Paese. Nel libro c’è anche una intervista inedita all’avvocato Salvatore Petronio che difese Salvatore Biondino, considerato il trait d’union tra Riina e il commando degli attentatori.