Dopo la sfiducia di Rajoy, un clamoroso ribaltone ha portato il leader del Psoe alla guida del governo spagnolo, con il sostegno di Podemos e degli indipendentisti baschi e catalani. Ma l’esecutivo socialista è ancora fragile e l’opposizione dei liberali nazionalisti di Ciudadanos incalza

Mentre in Italia si insediava un governo populista/destrorso, la Spagna sanciva la cacciata di Rajoy per intraprendere una svolta progressista. Due risposte, di segno opposto, alla crisi di questa Europa. Dopo quasi sette anni di discusso esecutivo, il leader del Pp – l’uomo dell’austerity, l’uomo della corruzione, l’uomo che non ha voluto che la Spagna facesse i conti con il franchismo e l’uomo della repressione in Catalogna – è stato disarcionato. Per la legge spagnola un premier decade soltanto se si propone un nome alternativo, e quel nome alternativo è stato trovato nel socialista Pedro Sánchez che avrà, ora, una risicata maggioranza in Parlamento grazie al sostegno (esterno) di Podemos e dei nazionalisti baschi e catalani. Un clamoroso ribaltone politico. L’istantanea di Sánchez e Iglesias che si stringono la mano, compiaciuti, dice più di mille editoriali. Nasce una nuova fase. Dopo il Portogallo, c’è vita a sinistra con la penisola iberica che si conferma il laboratorio – progressista – più interessante in Europa. E, in fin dei conti, l’unico pezzo di Vecchio continente governato, insieme alla Grecia, da partiti di sinistra.

È la rivincita di Pedro Sánchez. E pensare che il leader del Psoe – 46 anni, originario della provincia di Madrid, ex giocatore di basket, laureato in Economia – il 29 ottobre 2016 aveva annunciato la sua rinuncia al seggio da deputato. Un mese prima, nel mezzo della lunghissima impasse politica e dopo la ripetizione elettorale, era stato estromesso dalla guida del Partito socialista a causa delle sue posizioni su un possibile nuovo governo guidato proprio da Rajoy. Non voleva a nessun costo dare appoggio – anche indiretto – alla nascita di un altro governo di destra in Spagna, mentre buona parte dei dirigenti socialisti ritenevano che fosse la cosa migliore. Da quel momento Sánchez, che nel 2014 dal nulla era diventato segretario del Psoe e che rappresentava l’ala moderata del partito, si è trasformato, difendendo istanze diverse da quelle della terza via blairiana e, in qualche modo, riavvicinandosi alle ragioni socialdemocratiche del passato. Insomma, lontano dai Macron o dai Renzi.

La conversione di Sánchez è stata frutto della defenestrazione dell’ottobre del 2016: abbandonato da tutti, tranne alcuni stretti collaboratori, e con l’avversione dei vecchi leader del Psoe – da Felipe González a Zapatero e Rubalcaba -, Sánchez è riuscito contro vento e marea a vincere le primarie della primavera del 2017 con un discorso che guardava a sinistra, difendeva un accordo con Podemos e parlava di plurinazionalità per una Spagna segnata dalla crisi territoriale catalana. «Il mio sarà un governo socialista, paritario, europeista, garante della stabilità economica, che sia rispettoso dei propri doveri europei», sono state le prime parole di Sánchez, dopo l’incoronazione, volendo rassicurare subito i mercati e l’Unione europea: i vincoli saranno rispettati.

Abbandonando i facili entusiasmi, rimangono vari nodi…

Il reportage di Steven Forti e Giacomo Russo Spena prosegue su Left in edicola


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