Sono sempre tanti in rapporto alla capienza regolamentare ma sono sempre in diminuzione gli ingressi in carcere: 764 persone in meno rispetto al 2017 e anche il tasso di detenzione degli stranieri si è ridotto di oltre due volte negli ultimi dieci anni. E, gli stranieri detenuti, sono diminuiti anche in termini assoluti: rispetto al 2008, il cui tasso di detenzione era pari allo 0,71%, nel 2018 è lo 0,33. Tanto per avere un’idea, il numero degli immigrati extracomunitari regolari in carcere – circa tremila – è il 5% della popolazione detenuta, pari ai reclusi di origine lombarda. Stessa proporzione fra italiani e ucraini che hanno un tasso di detenzione più o meno identico; di poco superiore è quello dei moldavi, degli etiopi, degli ungheresi e dei romeni che, negli ultimi cinque anni, sono addirittura diminuiti di mille e cento unità, nonostante sia aumentato il numero degli immigrati (romeni) presenti in Italia, rappresentando una comunità longeva e ben radicata.
Segno che il patto di inclusione paga e garantisce sicurezza, contribuendo alla diminuzione del rischio di commettere crimini. E qualora li commettano, stando ai dati del Rapporto semestrale sulle condizioni di detenzione, elaborato dall’associazione Antigone, sono meno gravi di quelli di cui si macchiano gli italiani: considerando il reato di criminalità organizzata, il 98,75% dei detenuti condannati è italiano e solo l’1,25% è straniero come il 5,6% degli ergastolani. Nel 57% dei casi, i detenuti stranieri sono meno informati sui loro diritti, percentuale che, negli italiani, scende al 21%. E se per gli italiani, i colloqui col difensore che precedono le direttissime avvengono in troppo poco tempo e senza la necessaria riservatezza, per il 25% degli stranieri arrestati, il colloquio non è stato proprio fatto, anche a causa dei ritardi degli interpreti, quasi sempre poco formati e mal pagati.
In mancanza della riforma dell’ordinamento penitenziario, che avrebbe consentito di trattare – almeno a livello normativo – la malattia psichica al pari di quella fisica, la presenza di persone detenute che necessitano di cure dei servizi di salute mentale è crescente: i disagi psichici sono le patologie più diffuse nelle carceri italiane. Un malessere così diffuso tanto che dall’inizio dell’anno sono stati trenta i suicidi dietro le sbarre. Compreso quello del 23 luglio, a Viterbo: Hassan Sharaf di ventuno anni, si sarebbe impiccato nella cella di isolamento, nella quale era finito per un reato compiuto (forse) quando era minorenne. E, quindi, caso mai, sarebbe dovuto essere in un Istituto di pena per minorenni. Nei quali, secondo i dati più recenti, sono detenuti quattrocentosessantuno ragazzi, di cui duecento stranieri, comprese ventinove ragazze. Non perché siano più delinquenti dei loro coetanei italiani ma perché sono la rappresentazione più tangibile della debolezza sociale del territorio in cui sarebbero dovuti essere presi in carico e dell’assenza di percorsi alternativi.
Ancora troppo pochi anche per gli adulti: per troppi detenuti, infatti, la pena si sconta tutta in carcere, riducendo all’osso i contatti con l’esterno e innalzando il tasso di recidiva. Su oltre 58mila reclusi, sono 28mila quelli in misura alternativa. Il numero è ancora insufficiente se si pensa, anche, che molti detenuti sono rinchiusi in luoghi lontani dai loro cari: a parte per la collocazione del carcere, che nel 56% dei casi è situato in aree extraurbane ed è difficilmente raggiungibile, le criticità nel collegamento si fanno insostenibili quando lo spostamento avviene dal sud al nord del Belpaese. E le pene alternative risolverebbero, pure, il problema della carenza di personale visto che il rapporto medio fra educatori e detenuti è pari a uno ogni sessantanove; i medici lavorano, mediamente, quarantotto ore ogni cento reclusi mentre per gli psichiatri le ore lavorate scendono a nove.
Nessuna emergenza in termini di criminalità tra gli stranieri, dunque. L’emergenza è tutta italiana.