Di migranti si parla da anni, di queste masse enormi che si spostano ormai in quantità e modi imprevedibili, spesso con esiti drammatici. Respingimenti in aumento, accoglienza sempre più rara. Questo possiamo leggere sui giornali dove le parole emigrante ed immigrato sono ormai sostituite da quest’unica parola, migrante, che da l’idea di un viaggio senza un punto di partenza ed uno di arrivo, una condanna da girone infernale. Anche il cinema, ormai da tempo, entra in argomento, fornendoci spesso chiavi di lettura delle reazioni di chi deve confrontarsi quotidianamente con un’altra cultura. La proiezione di Menina, di Cristina Pinheiro, avvenuta al 40 Festival cinema e donne 2018 ( in precedenza alla Festa del cinema a Roma per Alice nelle città ndr), esamina il vissuto di Luisa, una bambina (menina in Portoghese) di 10 anni, magistralmente interpretata da Naomi Biton. Ispirato alla vita della regista, di famiglia portoghese, emigrata in Francia, a Port-Saint-Louis-du-Rhône, in Provenza durante la la dittatura di Salazar, questo lungometraggio di esordio, molto apprezzato dalla critica internazionale è stato accolto in sala da applausi al buio, seguiti da un denso silenzio all’apertura delle luci, quando in un festival ci si aspetta l’inizio del dibattito. A indicare che la parola, sul momento, non poteva competere con la potenza delle immagini.
La narrazione è affidata alla ragazzina, che con il padre ha un bel rapporto. Quando sei amata così intensamente, la lotta per la vita è spontanea e le avversità non scalfiscono la fiducia. Tutt’altro discorso il suo rapporto con la madre. Alle domande senza risposta che Luisa fa alla madre, non segue la rabbia. Come un vecchio saggio Menina accetta che la strada della ricerca è lunga. Le risposte comunque verranno. Ha solo 10 anni, ma il suo sguardo vede profondo. E’ l’unica della famiglia nata in Francia. Con compagne e compagni di classe è in buone relazioni, gioca e lavora con loro alla pari. Corregge la madre quando sbaglia il Francese. Si presenta allo spettatore come Francese, di famiglia portoghese. Così, senza drammi.
Una freschezza che sa molto di verità, perché la sua emigrazione, supportata dall’ istruzione ottenuta in Francia, di cui conferma a noi il suo ottimo giudizio, ne ha fatto una regista affermata. Merito anche, lo deduciamo dal film, del rapporto con un padre speciale, João Palmeira interpretato da Nuno Lopes
Diverso è il vissuto dei genitori e del fratello. Quest’ultimo da del voi al padre, parlandogli con formale rispetto, che rivela una sua educazione portoghese, meno libera. Anche la madre e il padre non riescono a compenetrare le due culture, perché predomina fortissima la nostalgia di ciò che sono stati costretti a lasciare. La Pinheiro vuole dare l’idea di un esilio, e infatti è riuscita a fotografare scenari che costituiscono un non luogo, una sorta di isola. Solo all’inizio si vedono strutture d’acciaio e ciminiere contro un cielo notturno, che poi scompaiono, sostituite da prati, spiaggia, muri e mare. Paesaggi di sole, ma senza storia.Il film descrive le difficoltà degli immigrati e la sofferenza, ma insieme rivela che la protagonista non ne è danneggiata e ciò di cui soffre non è direttamente legato all’esilio dei suoi.
Viene da confrontare Luisa con il dodicenne Samuele, di cui ci parlava il famoso documentario di due anni fa, Fuocoammare di Gianfranco Rosi. Un confronto basato sull’età, perché le ambientazioni distano temporalmente una quarantina di anni e perché la situazione di Samuele è capovolta. Non è lui il migrante. Eppure, per il fatto che vive a Lampedusa, piccola isola soggetta a continui sbarchi e all’arrivo di natanti i cui passeggeri non sempre sono ancora vivi, sembra sentire un’indefinita minaccia. Vive in un mondo ovattato, tenuto lontano dai suoi da quel turbine di arrivi all’isola. Tuttavia soffre il mal di mare e intraprende battaglie a suon di spari con l’orizzonte, e i suoi momenti di svago non sono sulla spiaggia. Va in cerca di uccellini nei nidi nascosti fra le fronde degli alberi. Quasi sapesse che dal mare deve difendersi, per vivere l’adolescenza con la serenità cui ha diritto. Dal film sembra prorompere un monito: finché non si creeranno le condizioni per una possibilità di vita per tutti, nessuno può stare bene, neppure quelli la cui vita non è minacciata.