Il viaggio è anche incoscienza. A poco più di vent’anni quando il mio amico iraniano Mohammed nel 1980 mi portò in Iran in piena rivoluzione khomeinista passando dalla Turchia avevo una nozione assai vaga dei posti che stavo attraversando e di quello che stavo cercando. Ma una cosa è certa: ovunque andassi ero ben accolto, forse perché ero giovane, piuttosto povero e probabilmente avevo un’aria più da pellegrino che da giornalista.
Ha ragione Farian Sabahi quando rimpiange l’epoca in cui attraversare il Medio Oriente era un viaggio, anche un’avventura, ma non una sfida contro la morte. Ci si poteva perdere ore e giorni in un bazar, davanti a rovine immaginifiche di civiltà scomparse, persino la dimensione del tempo veniva scandita diversamente da mezzi di trasporto come i cavalli, i cammelli o vecchie corriere così lente ad arrampicarsi sulle montagne del Kurdistan che non perdevi neppure un fotogramma del paesaggio.
[caption id="attachment_137805" align="aligncenter" width="1024"] Uno scatto della mostra "Safar: viaggio in medio oriente, vite appese a un filo"[/caption]
Certo anche allora c’erano posti pericolosi. A Beirut con la guerra civile gli scontri erano feroci, continui ed era pure alto il rischio per un occidentale di essere sequestrato da qualche gruppo della guerriglia. Ma in generale c’era ancora il piacere di viaggiare in un tempo dilatato: per inviare un pezzo al giornale c’era soltanto come mezzo il telefono o al massimo una telescrivente che funzionava con l’alfabeto Morse. E i telefoni, fuori dalle grandi città, erano rari, le telescriventi ancora di più. Molto spesso il giornale non sapeva neppure dov’eri. E quando mandavi un pezzo spesso raccontavi cose che avevi visto e sentito giorni prima: la sera ti abbattevi su un letto o un giaciglio qualunque pensando di avere informato il mondo.
Guardando alcune di queste foto scattate in Iraq, in Yemen o in Siria non posso non pensare a quel tempo perduto. Prima della tempesta. Ricordo che proprio con Farian andammo a Mosul a visitare uno dei capi della comunità yezida. Allora degli yezidi non parlava nessuno, soltanto dopo, quando l’Isis fece nel 2014 la sua comparsa in Iraq, salirono tragicamente alla ribalta delle cronache come una delle comunità più perseguitate insieme agli sciiti e ai cristiani. A quell’epoca, quando ancora gli americani non avevano invaso l’Iraq, nel 2003, si passeggiava sulle rive del Tigri e si potevano incontrare i Mandei con la loro storia millenaria: il loro capo, appoggiato a un bastone e avvolto in una tunica bianca, li accompagnava a immergersi nelle acque con un rituale che aveva tremila anni.
[caption id="attachment_137804" align="aligncenter" width="1024"] Uno scatto della mostra "Safar: viaggio in medio oriente, vite appese a un filo"[/caption]
Vedo le foto di Sanaa e si stringe il cuore: quelle torri, quei pinnacoli, oggi sono in molti casi ridotti in macerie. Gli Houthi, i ribelli zayditi, allora erano soltanto dei manipoli di adolescenti che conducevano la guerriglia contro il potere centrale e i sauditi con vecchi fucili. Oggi lo Yemen è forse la peggiore emergenza umanitaria mondiale ma se ne parla assai poco perché tra i responsabili del disastro ci sono americani, sauditi, Emirati, ma anche noi italiani, che vendiamo bombe alla monarchia di Riad.
Nulla di tutto quello che vediamo in questi scatti ci è estraneo. È un mondo diverso ma non così esotico. Abbiamo contribuito pesantemente alla sua distruzione. È difficile raccontare cosa volesse dire vivere in Iraq o Siria in questi anni, sotto i bombardamenti, asserragliati senza mai potere uscire. La morte arrivava dall’alto con i raid aerei o i missili, oppure in maniera silenziosa sulla lama di un coltello. E molti dei monumenti, dei muri, delle case, dei volti delle persone che qui sono ritratti non ci sono più. Perduti per sempre. Ecco perché l’immagine, anche la più innocente, come il sorriso di un bambino, non è semplicemente un ricordo ma un atto d’accusa.
[caption id="attachment_137803" align="aligncenter" width="1024"] Uno scatto della mostra "Safar: viaggio in medio oriente, vite appese a un filo"[/caption]
Questo testo di Alberto Negri, giornalista e membro del consiglio dell'Ispi, introduce la mostra SAFAR: VIAGGIO IN MEDIO ORIENTE, VITE APPESE A UN FILO, una sessantina di scatti realizzati da Farian Sabahi in Libano, Siria, Iraq, Iran, Emirati Arabi, Azerbaigian, Uzbekistan e Yemen tra il febbraio 1998 e la primavera 2005 ed esposti per la prima volta. La mostra viene inaugurata il 20 marzo 2019 al Museo d'arte orientale (Mao) di Torino. In occasione della rassegna, Farian Sabahi tiene al Mao un ciclo di tre lezioni sulla letteratura mediorientale, ogni incontro è dedicato ad una autrice - Vénus Khoury-Ghata, Inaam Kachachi, Nasim Marashi - e per ognuna si farà riferimento a uno o due testi in particolare. Left è media partner dell'evento
Il viaggio è anche incoscienza. A poco più di vent’anni quando il mio amico iraniano Mohammed nel 1980 mi portò in Iran in piena rivoluzione khomeinista passando dalla Turchia avevo una nozione assai vaga dei posti che stavo attraversando e di quello che stavo cercando. Ma una cosa è certa: ovunque andassi ero ben accolto, forse perché ero giovane, piuttosto povero e probabilmente avevo un’aria più da pellegrino che da giornalista.
Ha ragione Farian Sabahi quando rimpiange l’epoca in cui attraversare il Medio Oriente era un viaggio, anche un’avventura, ma non una sfida contro la morte. Ci si poteva perdere ore e giorni in un bazar, davanti a rovine immaginifiche di civiltà scomparse, persino la dimensione del tempo veniva scandita diversamente da mezzi di trasporto come i cavalli, i cammelli o vecchie corriere così lente ad arrampicarsi sulle montagne del Kurdistan che non perdevi neppure un fotogramma del paesaggio.
Certo anche allora c’erano posti pericolosi. A Beirut con la guerra civile gli scontri erano feroci, continui ed era pure alto il rischio per un occidentale di essere sequestrato da qualche gruppo della guerriglia. Ma in generale c’era ancora il piacere di viaggiare in un tempo dilatato: per inviare un pezzo al giornale c’era soltanto come mezzo il telefono o al massimo una telescrivente che funzionava con l’alfabeto Morse. E i telefoni, fuori dalle grandi città, erano rari, le telescriventi ancora di più. Molto spesso il giornale non sapeva neppure dov’eri. E quando mandavi un pezzo spesso raccontavi cose che avevi visto e sentito giorni prima: la sera ti abbattevi su un letto o un giaciglio qualunque pensando di avere informato il mondo.
Guardando alcune di queste foto scattate in Iraq, in Yemen o in Siria non posso non pensare a quel tempo perduto. Prima della tempesta. Ricordo che proprio con Farian andammo a Mosul a visitare uno dei capi della comunità yezida. Allora degli yezidi non parlava nessuno, soltanto dopo, quando l’Isis fece nel 2014 la sua comparsa in Iraq, salirono tragicamente alla ribalta delle cronache come una delle comunità più perseguitate insieme agli sciiti e ai cristiani. A quell’epoca, quando ancora gli americani non avevano invaso l’Iraq, nel 2003, si passeggiava sulle rive del Tigri e si potevano incontrare i Mandei con la loro storia millenaria: il loro capo, appoggiato a un bastone e avvolto in una tunica bianca, li accompagnava a immergersi nelle acque con un rituale che aveva tremila anni.
Vedo le foto di Sanaa e si stringe il cuore: quelle torri, quei pinnacoli, oggi sono in molti casi ridotti in macerie. Gli Houthi, i ribelli zayditi, allora erano soltanto dei manipoli di adolescenti che conducevano la guerriglia contro il potere centrale e i sauditi con vecchi fucili. Oggi lo Yemen è forse la peggiore emergenza umanitaria mondiale ma se ne parla assai poco perché tra i responsabili del disastro ci sono americani, sauditi, Emirati, ma anche noi italiani, che vendiamo bombe alla monarchia di Riad.
Nulla di tutto quello che vediamo in questi scatti ci è estraneo. È un mondo diverso ma non così esotico. Abbiamo contribuito pesantemente alla sua distruzione. È difficile raccontare cosa volesse dire vivere in Iraq o Siria in questi anni, sotto i bombardamenti, asserragliati senza mai potere uscire. La morte arrivava dall’alto con i raid aerei o i missili, oppure in maniera silenziosa sulla lama di un coltello. E molti dei monumenti, dei muri, delle case, dei volti delle persone che qui sono ritratti non ci sono più. Perduti per sempre. Ecco perché l’immagine, anche la più innocente, come il sorriso di un bambino, non è semplicemente un ricordo ma un atto d’accusa.
Questo testo di Alberto Negri, giornalista e membro del consiglio dell’Ispi, introduce la mostra SAFAR: VIAGGIO IN MEDIO ORIENTE, VITE APPESE A UN FILO, una sessantina di scatti realizzati da Farian Sabahi in Libano, Siria, Iraq, Iran, Emirati Arabi, Azerbaigian, Uzbekistan e Yemen tra il febbraio 1998 e la primavera 2005 ed esposti per la prima volta. La mostra viene inaugurata il 20 marzo 2019 al Museo d’arte orientale (Mao) di Torino.
In occasione della rassegna, Farian Sabahi tiene al Mao un ciclo di tre lezioni sulla letteratura mediorientale, ogni incontro è dedicato ad una autrice – Vénus Khoury-Ghata, Inaam Kachachi, Nasim Marashi – e per ognuna si farà riferimento a uno o due testi in particolare. Left è media partner dell’evento