Sarà stata una casualità quasi beffarda, ma proprio nella settimana del lugubre raduno internazionale di bigotti misogini a Verona , il mio percorso, casuale ma obbligato, al Festival del cinema africano, Asia ed America Latina (FESSCAAL 2019) a Milano, è stato guidato prevalentemente da degli sguardi femminili, sia che si trattasse di opere di registe, sia di storie personaggi femminili che narrano il proprio mondo o testimoniano quello altrui.
E’andata così sin dall’anteprima Youth, kolossal melò dello specialista di cinepanettoni ( o meglio cinecapodanni inteso alla cinese, come ha spiegato prima della proiezione Marco Muller) Feng Xiaogang, dove la storia di una compagnia di ballo patriottico ai tempi della Rivoluzione Culturale viene narrata attraverso il percorso divergente di due componenti femminili della stessa troupe : il risultato è un viaggio tra generi diversi, dove la danza di plastiche guardie rosse o eroi della rivoluzione precede la visione di trucide sequenze di guerra, in cui però le operazioni belliche sembrano la continuazione del balletto realsocialista di poco prima.
Uno sguardo invece femminile è quello di Fiore Gemello (in foto) di Laura Lucchetti, film di apertura che vedrete in sala, una storia non convenzionale sul fenomeno dei migranti, che merita uno sguardo anche per la straordinaria intensità dei giovani protagonisti, due non attori di cui sicuramente sentiremo ancora parlare.
Dubito invece che vedrete mai, se non lo incocciate a qualche festival, il bel corto del fotografo Alessandro Basile, Fashion Victims, inquietante mix di interviste a giovani operaie del tessile nel Tamil indiano e immagini splendide della natura in loco : se pensate che una televisione italiana vi faccia vedere cosa c’è dietro il capo a poco prezzo (ma anche più costoso) che tanto vi ha deliziato il pomeriggio di shopping, credo che siate parecchio ottimisti, anche perché, come è stato detto in sala nel dibattito dopo la proiezione, si fa prima a dire quali siano i marchi italiani che non comprano in questa zona che a dire i nomi di quello che invece lo fanno.
Incide invece altrove lo sguardo femminile in modo lucidissimo, rivolgendosi contro le contraddizioni di un mondo che resta abbarbicato a tradizioni religiose e culturali che vogliono la donna esclusa e subordinata, come nel piacevole Freedom Fields di Nazima Arebi, documentario sulle donne della nazionale di calcio femminile libica, che traggono dal gruppo e dalla solidarietà tra loro la forza di sfidare il caos del loro paese e i pregiudizi dei bigotti.
Oppure l’opera prima di Rima Das Bulbul Can Sing, film che per un tratto sembra un idillio bucolico adolescenziale nella campagna dell’Assam, ma che si trasforma improvvisamente nel duro scontro dei sogni d’amore e di libertà con la terribile morale di una società patriarcale che spazza via tutto e tutti.
Società patriarcale che non lascia nessuna pietà per nessuno che sia diverso dalla norma, come in Retablo di Alvaro Delgado – Aparicio, ambientato invece dall’altra parte del mondo, sulle Ande, un altra storia che inizia come un idillio bucolico artistico, un apprendistato all’arte nominata dal titolo (fabbricare piccole scatole decorate con dentro delle statuette) su cui cala all’improvviso una scoperta spiazzante sul conto del padre maestro, fatta per caso da parte del figlio allievo : quando anche la comunità lo scoprirà, la reazione sarà violenta è inesorabile, solo il figlio riuscirà a comprendere e a restare accanto al povero artista fino alla sua fine.
Dopo la visione di questo film mi sono potuto immergere infine nella storia del cinema africano, chiudendo l’ultima serata con la visione dell’omaggio a Djibril Diop Mambéty, con la proiezione di Hyenes, sfavillante adattamento da La visita della Vecchia Signora di Durrenmatt in mezzo all’Africa, e del corto Parlons Grand -Mer, making – off di Yaaba di Idrissa Quédraogo.
Ho fatto solo una rapida rassegna di una parte di quel che ho visto, oltretutto raccontando in pillole film difficilmente visibili dal pubblico che frequenta le sale, dispiaciuto poi anche per il fatto che il gioco tra gli impegni personali, gli orari dei film nelle varie sale sparse nel centro della città, qualche ritardo tecnico, l’effetto maratona festivaliera (dopo il terzo film consecutivo, anche un cinefilo maniaco come me accusa un briciolo di stanchezza) non mi hanno permesso la visione né di Baby di Liu Jie, il vincitore del concorso dei lunghi, né dei vincitori del concorso corti africani
(Brotherhood di Merayam Joobeur) e italiani (La Gita di Salvatore Allocca), ma confido vivamente in qualcuna delle sempre presenti iniziative collaterali del festival, proiezioni speciali che mi
possano colmare questa lacuna, perdonabile dopo dieci giorni intensi di visioni inusuali da un immaginario cinematografici inconsueto.