Nell’immaginario collettivo le lunghe file di donne, eleganti o con abiti modesti, mamme col pupo in braccio o magnifiche come Anna Magnani colta nell’atto di sigillare la scheda prima d’imbucarla nell’urna, sono tutte immagini associate al 2 giugno ’46 e al primo voto delle donne italiane, dimenticando che il 10 marzo avevano già votato per le amministrative; una seconda tornata, ben più consistente, si avrà il 10 novembre. È comunque giusto legare il ’46 al primo voto femminile, mettendo in primo piano referendum e Assemblea costituente.
Ricorda Maria Bellonci: «Quel 2 giugno, quando di sera, in una cabina di legno povero e con in mano un lapis, mi trovai all’improvviso di fronte a me, cittadina. Confesso che mi mancò il cuore e mi venne l’impulso di fuggire». Ciò che spaventò fu “cittadina”, un concetto fatto su misura per il maschio adulto visto che le donne difettavano, sostiene Anna Rossi Doria, di due qualità essenziali all’individuo: l’indipendenza e il possesso della propria persona. Le donne sposate poi erano del tutto prive, fino al Novecento, di ogni diritto civile nei Paesi in cui vigono il Codice napoleonico e l’autorizzazione parentale.
Il diritto di voto scardinò la separazione fra pubblico e privato dando un nuovo significato all’identità femminile, sia valorizzando i ruoli tradizionali come la maternità, sia proiettando la donna nella vita pubblica. Ma dai diritti politici alla pienezza di quelli civili il percorso fu lungo e accidentato; basti ricordare che negare l’accesso alla magistratura sarà considerato una vendetta postuma al diritto di voto. Lo stesso giurista Vezio Crisafulli sostiene che le radici di tale resistenza siano culturali e non giuridiche: «Anche in molti che non sono affatto … retrivi e codini, l’idea di essere giudicati da donne provoca un senso di fastidio, nel quale confluiscono moventi irrazionali … e persino veri e propri complessi ancestrali; né ho ritegno a confessare che una tale reazione istintiva e emozionale, la conosco bene io stesso, per esperienza diretta».
Il diritto al voto fu una conquista delle donne, non una concessione, non lo si ricorda mai abbastanza. Le donne si sono battute nella Resistenza e nei Gruppi di difesa della donna, e mentre ancora si combatteva, l’Udi (Unione donne italiane) e il Cif (Centro italiano femminile) avviarono la raccolta di firme per una petizione da inoltrare al governo Bonomi sul diritto di voto, attivo e passivo. Tutti i leader politici nutrirono forti dubbi sul voto alle donne, ma di fronte alla palese opposizione di liberali, azionisti e repubblicani, Togliatti e De Gasperi si attivarono, come testimoniato da uno scambio epistolare, per mettere in agenda l’estensione del voto. Il ddl venne approvato il 31 gennaio ’45, ma si dovette integrarlo in quanto, stranamente, non v’era traccia di eleggibilità delle donne.
E venne fatto in gran fretta e approvato a sorpresa, onde evitare la “settimana del voto” proclamata dall’Udi e con l’adesione delle organizzazioni femminili di tutti i partiti. Lo stesso Togliatti sostenne che «la concessione del voto alle donne è giunta prima che le masse femminili fossero mobilitate su questa questione», ma commise errore ben più grave quando negò che «la tradizionale arretratezza delle masse femminili italiane» andasse «messa in relazione al fatto che sono legate alla religione cattolica» riconducendola alla sola questione economica e all’arretratezza dei rapporti civili. È ben noto che Pio XII, favorevole al suffragio femminile, si rivolse alle presidenti del Cif con intenti molto espliciti: «Ogni donna, dunque, senza eccezione, ha, intendete bene, il dovere, lo stretto dovere di coscienza, di non rimanere assente, di entrare in azione … per contenere le correnti che minacciano il focolare, per combattere le dottrine che ne scalzano le fondamenta, per preparare, organizzare e compiere la sua restaurazione».
Così le donne votarono e furono determinanti per la vittoria della repubblica, ma non scelsero le donne: soltanto 2mila sono elette nei consigli comunali e 21 alla Costituente. Concorde è il parere degli storici nel ritenere che questo fu un voto ideologico, visto che nella campagna elettorale sono del tutto assenti i problemi costituzionali così come nella scelta dei candidati le competenze. Il voto del 2 giugno si definisce libero e espressione di sovranità popolare, ma sono stati i partiti a orientarne gli esiti, i nuovi partiti di massa che hanno saputo comprendere la profonda trasformazione operata dal fascismo in tal senso, mentre il Pli e il Pd’A, legati a vecchie concezioni elitarie, furono destinati a eclissarsi. Se i partiti condizionano fortemente le scelte degli elettori non si può parlare di libertà dei cittadini.
Il referendum pose una scelta chiara, che spaccò in due il Paese tra Nord e Sud e tra repubblica e monarchia. Gli schieramenti furono ben definiti: i fautori della repubblica dalla sinistra a Giannini dell’Uomo qualunque, quelli della monarchia a destra. Contraddittoria fu invece la posizione della Dc che scelse l’agnosticismo, nonostante il sondaggio interno di Attilio Piccioni rilevasse che la maggioranza degli iscritti fosse per la repubblica e volesse fare campagna elettorale; ma De Gasperi sapeva bene di avere un’organizzazione debole e che il consenso al partito era mediato dalla Chiesa, non benevola nei confronti della repubblica.
Giorgio Galli, confrontando il risultato referendario con il voto ai partiti, conclude che il contributo Dc alla repubblica non abbia superato il milione di voti, e che degli 8 milioni dei consensi democristiani, la gran parte provenisse da un elettorato moderato-conservatore, pur essendo le posizioni ufficiali orientate verso un certo ammodernamento della società e De Gasperi, al momento, non vedesse alternativa alla collaborazione con le sinistre: egli guardava alle masse contadine e ai ceti medi, il 57% della popolazione italiana, già base del fascismo e che andava conquistato dalla Dc.
Le amministrative del 10 novembre segnarono un’inversione con il crollo democristiano e una grande affermazione dell’Uomo qualunque, che Giannini aveva accreditato come vero partito cattolico; un preciso avvertimento a De Gasperi, a cui non restava altro da fare se non rompere con Psi e Pci, dopo un drammatico colloquio con Giovanni Battista Montini, sostituto della segreteria di Stato vaticana, che senza mezzi termini gli comunicò che tale collaborazione «non è più ammessa» pena l’essere considerati di un «partito filo-nemico».
Nel dopoguerra l’unica forza veramente vincitrice fu la Chiesa che vide rafforzata la sua (presunta) autorità morale senza scontare peraltro in nessun modo l’appoggio dato al fascismo per un ventennio. Grazie alla Conciliazione aveva superato la frattura con lo Stato liberale recuperando il consenso dei ceti medi. Il cattolicesimo era diventato religione di Stato e ideologia egemone e essere cattolico non era più un fatto personale ma dovere di ogni buon cittadino. Dopo la guerra questi amanti dell’ordine e del quieto vivere hanno trovato un riscontro nella Dc, ma delusi e traditi nel loro anticomunismo, con il voto autunnale vollero piegare De Gasperi alla loro politica e nel ’48, soddisfatti, indirizzeranno di nuovo il consenso su questo partito. La ribellione finanziata da Vaticano, Azione cattolica e Confindustria ci costringe a superare la versione di un De Gasperi che torna dall’America con il filoncino di pane in mano: gli aiuti economici cioè contro la rottura con la sinistra. È giocoforza pensare che i giochi fossero fatti in Italia, senza sottovalutare la situazione internazionale e la guerra fredda. De Gasperi era spinto verso scelte centriste e inaugurò una lunga stagione di collaborazione con formazioni politiche di destra come l’Msi, una giravolta che lo portò ad affermare: «Non neghiamo quanto di costruttivo e di buono vi fu nel movimento fascista», e nello stesso tempo a varare, nel ’52, la legge Scelba quale concessione formale all’antifascismo.
La complessità del voto del 2 giugno la si afferra solo se si considera anche il fallimento del governo Parri, incapace di affrontare le terribili distruzioni prodotte dalla guerra, di dare una casa a milioni di sfollati; di riattivare un apparato industriale in gran parte distrutto e una viabilità ridotta ai minimi termini. Il problema era sfruttare il 45% di energia elettrica disponibile e che poteva essere impiegata per far ripartire l’economia, se si fosse disposto di materie prime e carbone; oltre che riavviare un settore agricolo e zootecnico distrutto o razziato. Tutto questo in un Paese in cui l’agricoltura, per la sua povertà e arretratezza, rappresentava un’aspra denuncia delle politiche fasciste che conservando intatto il latifondo, si erano impegnate unicamente nella battaglia per il grano a danno della zootecnia e di culture specializzate.
Il 2 giugno si votò in un clima di paure e di apocalittici “salti nel buio”, ma le donne si sono presentate in massa, e qualunque scelta abbiano fatto, dettata o meno dalla consapevolezza, manipolata o libera, è certo che nel loro cuore hanno sentito l’importanza del momento e andando a votare hanno determinato la vittoria della repubblica e della democrazia.