Professor Luigi Ferrajoli, secondo lei – giurista e allievo di Bobbio – esiste un sistema elettorale più democratico degli altri?
Ho sempre pensato che il sistema elettorale più democratico, quello che meglio garantisce la rappresentanza politica, è il sistema proporzionale. Questo è tanto più vero nelle condizioni attuali: l’Italia, come gran parte degli altri Paesi europei, soffre di una crisi radicale della rappresentanza. Il nostro ceto politico non rappresenta quasi più nulla: il 50 per cento dell’elettorato non vota e l’altra metà è costretta a scegliere tra partiti che, nel loro insieme, come dicono i sondaggi di Ilvo Diamanti, non raggiungono il 4 per cento di gradimento. È perciò crollata non solo la quantità, ma anche la qualità del voto: si vota prevalentemente il partito meno penoso, per paura o disprezzo di tutti gli altri.
Chi ci rimette di più con il crollo della rappresentanza?
Questo crollo della rappresentanza, mentre non danneggia la destra e le forze di governo, essendo perfettamente funzionale alle politiche liberiste – dato che consente la massima e indisturbata onnipotenza del ceto di governo nei confronti della società, in ossequio alle direttive dei mercati – a sinistra è letteralmente distruttivo, dato che equivale all’emarginazione di qualunque politica anti-liberista in difesa dei diritti sociali e del lavoro. Per questo, i sistemi maggioritari sono funzionali all’attuale crisi della rappresentanza: perché sono fondati sulla personalizzazione e sulla verticalizzazione dei sistemi politici e sulla passivizzazione dell’elettorato.
I sistemi maggioritari allontanano dalla politica?
Naturalmente sono solo uno dei fattori della distanza tra sistema politico e società. Sicuramente, grazie anche allo sradicamento sociale dei partiti, tali sistemi favoriscono la trasformazione delle elezioni in concorsi di bellezza e in gare di demagogia tra i diversi capi che litigano in televisione. Solo il sistema proporzionale garantisce invece, con l’uguaglianza del voto, la rappresentanza di tutti gli interessi, di tutte le forze politiche, di tutte le opzioni, di tutti i diversi progetti nella società. Solo il sistema proporzionale rende possibile la rifondazione dei partiti quali portatori di interessi e politiche diverse.
Perché?
Perché, paradossalmente, i sistemi maggioritari costringono le forze politiche ad assomigliarsi per catturare il voto cosiddetto centrista, che poi è il voto dell’elettorato più spoliticizzato, più disinformato e più disinteressato. Inoltre, solo il sistema proporzionale garantisce la centralità del Parlamento, dato che in base ad esso il partito di maggioranza relativa, supponiamo del 30 per cento, per formare il governo è costretto al compromesso parlamentare che, non dimentichiamolo, è la forma propria delle decisioni nelle democrazie parlamentari. Quindi, solo una legge elettorale proporzionale è in grado di promuovere lo sviluppo di un effettivo pluralismo politico e perciò la massima rappresentatività del Parlamento.
Da anni lei chiede una riforma dei partiti.
Sì, lo sostengo da sempre: occorre una legge che imponga la democrazia interna, a tutela dei diritti politici degli elettori, e che introduca quello che è un presupposto elementare della rappresentanza: l’alterità tra partiti quali organi della società e istituzioni pubbliche rappresentative. Occorre cioè la separazione e l’incompatibilità tra cariche di partito e funzioni pubbliche anche elettive. I gruppi dirigenti dei partiti che vanno in Parlamento e anche al governo dovrebbero lasciare il posto ad altri, che siano in grado di orientarli, di controllarli, di chiamarli a rispondere. Questa è la condizione minima della rappresentanza, senza la quale i partiti – come vediamo – si sono di fatto trasformati in organi parastatali. Ma c’è di più.
Vale a dire?
Senza partiti radicati nella società e autonomi dalle istituzioni, la selezione del ceto politico avviene sulla base della cooptazione dei più fedeli al capo di turno. Di qui il crollo della qualità della classe dirigente. Siamo al livello più basso rispetto al passato, non parliamo della Costituente, ma anche dei Parlamenti degli anni 50, 60 e 70, quando i politici, di governo e di opposizione, erano persone più colte, più capaci, più disinteressate.