Erano scampati al bombardamento del lager libico di Tajoura dello scorso 2 luglio, in cui morirono 53 persone. Avevano trovato rifugio all’interno di una struttura dell’Unhcr, a Tripoli. Un luogo dove finalmente i circa 480 profughi superstiti si sentivano al sicuro, al riparo da nuove torture e omicidi, di routine nel centro di detenzione da cui provenivano. Ora però l’agenzia Onu per i rifugiati chiede agli ospiti abbandonare la struttura perché i posti all’interno sono troppo pochi rispetto alle presenze. Minacciandoli di essere riportati nei centri di detenzione. Mettendo così, in ogni caso, a rischio le loro vite.
La struttura dell’agenzia Onu per i rifugiati, conosciuta come Gdf (Gathering and departure facility, ndr), «è gravemente sovraffollata. Più di mille persone sono ospitate qui, mentre la capacità del centro è di 700 persone» spiega in una nota l’Unhcr. «Le infrastrutture e i servizi del Gdf – si legge ancora – sono malridotti e il deterioramento delle condizioni di vita potrebbe portare ad una situazione insostenibile». Il centro, creato nel 2018, ha la funzione di spazio di transito per quei rifugiati detenuti nel Paese che vengono identificati come i più vulnerabili e per i quali (pochi) viene trovato un posto fuori dalla Libia. Non per tutti, insomma. Per questo ai sopravvissuti di Tajoura è stato chiesto di uscire.
UNHCR statement on the situation in the Gathering and Departure Facility in Tripoli pic.twitter.com/zp41uT5I01
— UNHCR Libya (@UNHCRLibya) September 2, 2019
Ma i circa 480 superstiti ai quali è stata formulata questa richiesta si sono opposti. Per loro, allontanarsi dalla struttura significa rischiare di tornare tra le mani dei trafficanti di esseri umani, oltre che esporsi ai pericoli del conflitto in corso nel Paese. Per questo hanno deciso di lanciare un appello internazionale. Dopo essere entrati nel centro il 9 luglio, «ora l’Interno e l’Unhcr vuole farci uscire e lasciarci per le strade di Tripoli, dove ci aspettano intensi combattimenti e reti di trafficanti – scrive uno dei profughi all’interno del Gdf, in un messaggio Whatsapp che abbiamo raccolto grazie al lavoro di denuncia del collettivo Josi e Loni project. «Il rischio – prosegue – è di una grande catastrofe umanitaria. Noi rifugiati e sopravvissuti del bombardamento di Tajoura chiediamo aiuto e protezione».
Secondo diversi profughi ora sotto sgombero, vivere all’esterno del centro, a Tripoli, sarebbe tanto rischioso quanto affrontare il mare, e per questo molti di loro starebbero già pianificando la traversata del Mediterraneo, come si evince da alcune testimonianze raccolte dall’Irish Times.
I profughi in questione erano fuggiti in massa dal centro di detenzione di Tajoura, nella periferia Est di Tripoli, in seguito al raid dell’aviazione del generale Khalifa Haftar del 2 luglio, un vero e proprio crimine di guerra nell’ambito dello scontro civile in atto nel Paese (non era la prima volta che il centro finiva sotto le bombe; secondo le testimonianze di alcuni profughi, inoltre, i morti sarebbero stati circa un centinaio). Dopo che l’Unhcr si era dichiarata disponibile ad ospitare solo una piccola parte dei superstiti nel Gdf, gli esclusi avevano deciso di entrare comunque nella struttura.
A distanza di due mesi dal loro ingresso, però, il personale del centro ha comunicato ai profughi di essere “sgraditi”, in quanto il loro accesso sarebbe avvenuto in maniera “abusiva”, la struttura è oltre il limite della capienza e i posti a disposizione per l’evacuazione sono assai limitati. Motivazioni che, per quanto reali, assai difficilmente giustificano l’esposizione di persone già fortemente traumatizzate al rischio di tornare nei lager libici (nel centro dal quale provengono, quello di Tajoura – è bene ricordarlo – torture e stupri sono all’ordine del giorno). Un’operazione messa in atto, peraltro, proprio dall’agenzia che avrebbe come mandato internazionale la loro protezione.
Ma a suscitare forte preoccupazione sono anche le modalità con cui si sarebbe chiesto ai profughi di andarsene. Come testimoniato da alcuni video girati dai migranti, gli operatori dell’Unhcr avrebbero tentato di convincere i superstiti di Tajoura ad abbandonare il Gdf affermando che «non ci sono altre opzioni», e che qualora non accettassero di farlo «arriveranno qui (le autorità libiche, ndr) e vi riporteranno nei centri di detenzione». Il Gdf dell’Unhcr, è bene ricordarlo, opera sotto la giurisdizione del ministero dell’Interno libico del governo di accordo nazionale presieduto da Fayez al-Sarraj.
https://twitter.com/SAIBI2001/status/1168160321145647105
I’ve been sent video showing a UNHCR staff member telling Tajoura bombing survivors today that they will be taken back to detention centres by Libyan authorities if they don’t agree to leave the UNHCR Tripoli centre. pic.twitter.com/tsfVeIX4tK
— Sally Hayden (@sallyhayd) September 1, 2019
Secondo alcune testimonianze scritte a mano dai profughi e raccolte dalla reporter irlandese Sally Hayden, inoltre, nei loro confronti gli operatori Onu avrebbero paventato l’uso della forza, in caso di rifiuto ad uscire autonomamente.
Text written by a Tajoura detention centre bombing survivor who has been staying in the UNHCR centre in Tripoli, but now is being told to leave. pic.twitter.com/k0mYKdVfK7
— Sally Hayden (@sallyhayd) September 4, 2019
«Non abbiamo mai detto che i profughi saranno forzati ad uscire, o che sarà in alcun modo usata la forza nei loro confronti», ribatte Paula Barrachina Esteban, funzionaria dell’Unhcr a Tripoli, contattata dal nostro settimanale.
«Ma se non volessero abbandonare il centro – prosegue – e non trovassimo altre soluzioni, una possibilità è che le autorità libiche decidano di intervenire e li riportino in stato di detenzione. Non è la cosa che vogliamo, per questo abbiamo deciso di prolungare il dialogo coi profughi. Per ora nessuno di loro è stato fatto uscire, si tratta di una soluzione volontaria».
Il motivo con cui l’agenzia per i rifugiati giustifica la scelta di allontanare una parte degli attuali profughi presenti nel Gdf – ribadiscono dall’Alto commissariato – è legato alle condizioni della struttura, e di chi la abita.
«Il Gdf è un centro di transito per i rifugiati detenuti in Libia che individuiamo come più vulnerabili, affinché siano evacuati dal Paese – prosegue Barrachina -. Tra coloro che erano detenuti a Tajoura ne abbiamo individuati 55. Ma ora la struttura è al limite, e non abbiamo a disposizione abbastanza slot per evacuare tutti i profughi presenti nel centro. Perciò abbiamo chiesto ai 480 che sono entrati dopo il bombardamento di luglio di essere trasferiti in ambito urbano, dove vivono già più di 50mila rifugiati».
A chi accettasse di uscire – in gruppi da 20-40 per volta – verrebbero consegnati una piccola cifra di denaro e l’occorrente per l’igiene personale, e verrebbe offerta la possibilità di una successiva valutazione personale per verificare le condizioni per un reinsediamento fuori dal Paese.
«La Libia non è un Paese sicuro, lo sappiamo – conclude la portavoce dell’Unhcr -. Per questo quella che proponiamo non è la soluzione ideale, ma è l’unica che abbiamo se vogliamo tornare ad rendere operativo il Gdf. Nell’ultimo anno da qui sono state trasferite 1016 persone, verso il Niger e verso l’Europa. In questo momento abbiamo identificato persone che avrebbero diritto ad abbandonare la Libia, ma non possono accedere al Gdf perché è pieno».
Numeri e argomentazioni, questi, che al momento non fanno presa sui sopravvissuti di Tajoura, portatori di un gigantesco bagaglio di ferite, nel corpo e nella psiche. Costretti ad un assurdo braccio di ferro con chi avrebbe il compito di difenderli, che non intendono mollare.