Siamo al quarto governo che si impegna a gestire la ricostruzione post sisma nel Centro Italia. E alla quarta speranza disillusa. Il governo Conte II raccoglie un’eredità difficile, ed è consapevole delle criticità esistenti. Ha ascoltato il popolo terremotato, manifestando una volontà di discontinuità con il passato, specificando che le esigenze di chi oggi vive nel “cratere sismico” del Centro Italia, dopo i terremoti del 2016 e del 2017, troveranno risposte immediate. Eppure, dopo un annuncio a reti unificate – recuperando peraltro il metodo comunicativo delle “slides” caro alla compagine democratica – ha presentato un decreto sisma (in vigore dal 25 ottobre) che nulla cambia, se non prorogare termini, scadenze e soluzione dei problemi.
Lo stato d’emergenza – che concede poteri speciali alla Protezione civile e, quindi, comporta una limitazione delle garanzie costituzionali e democratiche del nostro ordinamento – è prorogato fino al dicembre del 2021. L’ennesima proroga, che rappresenta un’ammissione del fallimento della politica, incapace di riportare la gestione del post-emergenza in una fase ordinaria di rilancio del territorio colpito. Dopo tre anni l’emergenza è finita. Dopo tre anni si dovrebbe poter iniziare a raccogliere i frutti di un progetto politico, che però non è mai stato pianificato. Tutt’oggi, di questa visione progettuale, non vi è neanche l’ombra.
Purtroppo, nulla si è imparato dalle esperienze passate. In molti, riflettendo sulla “cultura italiana dell’emergenza” citano l’esperienza del post-terremoto in Friuli come la migliore che si sia sperimentata. E, a ben vedere, si potrebbe anche essere concordi nel sostenere che la linea seguita in quella occasione, ossia prima le aziende, poi le case e infine le chiese, abbia giocato un ruolo fondamentale per mantenere la popolazione sul territorio. Con un lavoro e con un reddito, d’altronde, è più facile attendere la ricostruzione. (Non bisognerebbe poi dimenticare che il popolo friulano, per ottenere quel modello di gestione, si rese protagonista di azioni anche energiche, portando avanti le proprie istanze con proteste e manifestazioni, e con forme di autogestione delle famose tendopoli).
Invece, il nuovo decreto sisma definisce le priorità di ricostruzione ponendo al primo posto le case – prima quelle di chi ha un tetto grazie al contributo economico dello Stato, evidentemente non più sostenibile per le casse nazionali, poi di chi vive nelle “casette”, costate fino a 6mila euro al metro quadro), mettendo in secondo piano la ricostruzione delle aziende e delle imprese. Inserendo inoltre i terremotati tra i beneficiari del progetto “Resto al Sud”, progetto che prevede aiuti o finanziamenti agevolati a giovani imprenditori che decidono di aprire qualunque attività industriale in determinate regioni meridionali, senza che sia adeguatamente preso in considerazione il tessuto economico-produttivo dei territori. E senza aggiungere neanche un euro a questo piano di investimenti: la coperta, insomma, è sempre la stessa.
Oltre a ciò, il progetto “Resto al Sud” prevede che gli aiuti vengano riconosciuti anche ai nuovi residenti, elemento che se associato al fatto che è stata riconosciuta la possibilità per i terremotati di vendere la propria abitazione prima che sia ricostruita, dovrebbe immediatamente far scattare un allarme. Non solo per il rischio di una radicale conversione della produzione di beni nel territorio dell’appennino centrale, ma anche per quello di una vera e propria sostituzione della popolazione da parte di chi “può permetterselo”.
Due ultimi aspetti sono poi decisamente inquietanti. Il primo riguarda la gestione delle macerie: col decreto viene data totale libertà di assegnare in via diretta le pratiche per il loro smaltimento ad aziende private, senza bando pubblico e conseguenti controlli appropriati. E sappiamo bene quanto sia elevato il rischio di infiltrazioni mafiose in questo settore.
Il secondo riguarda una norma che indica come prioritaria, per la ricostruzione pubblica, la scuola. Sulla correttezza di questa priorità nutro alcuni dubbi – per insegnare è necessario avere un tetto sulla testa e una comunità, per operare o curare servirebbero strutture molto più complesse con maggiore urgenza – senza poi considerare che, qualora una scuola sia crollata e non sia possibile ricostruire lì dov’era, non si potrà cambiare la destinazione urbanistica dell’area. Ma a questo punto viene da chiedersi, cosa ne faremo di questi “buchi” nei Paesi ricostruiti?
Imprecisioni volute, mancate risposte, conferme degli indirizzi assolutamente fallimentari seguiti fino ad oggi. È questa la sintesi del nuovo decreto sisma da poco entrato in vigore: un condensato di norme che cerca di spostare la stessa coperta per coprire alcuni problemi, senza accorgersi di lasciarne scoperti altri. Possiamo solo sperare, dunque, che in sede di conversione il Parlamento intervenga per modificare quanto possibile.