Il fallimento del vertice di Madrid sul clima, la COP 25, non sorprende. Quante/i hanno veramente a cuore la salvaguardia del pianeta lo avevano ampiamente previsto e denunciato. D’altronde che non avrebbero deciso nulla, lo anticipava il ritiro degli USA dagli accordi di Parigi. È evidente che la loro scelta di escludere il Paese che, insieme alla Cina, manda più gas serra in atmosfera, paralizza ogni decisione di tutti gli altri. A cominciare dall’Europa, che al di là dei proclami sull’agenda verde, non ha né la sufficiente unità, né la volontà politica di gesti unilaterali vincolanti. Prevederne quindi il fallimento non era complicato, ma questo non deve consolare nessuno, tanto meno impedire di essere impauriti dalla mancanza di decisioni capaci di contrastare il cambio climatico.
Questa volta non aver trovato un accordo è più grave. Dire, come di fatto dice la risoluzione finale della COP25, che un accordo ambizioso lo si troverà la prossima volta, cioè fra un anno, nei due vertici programmati di Bonn e Glasgow è allucinante. Soprattutto dopo che la comunità scientifica aveva avvertito che il tempo stava scadendo, che restano cioè solo 10 anni per invertire la tendenza e contenere l’aumento delle temperature nei due gradi o meglio in quel grado e mezzo, che la scienza consiglia. Scienziate/i a parte è la realtà drammatica e diffusa di eventi estremi, che vive buona parte della terra, devastata da inondazioni, uragani e desertificazioni, a dirci quanto deprimente sia questo ennesimo fallimento. Buttare via altro tempo, del poco che è rimasto, spinge all’impotenza e fa diventare, nella testa di tante/i, una chimera l’obiettivo di un aumento di soli due gradi. Da tempo è noto che governare il clima è un lavoro di lunga lena, che richiede, oltre alla volontà politica, tanto tempo.
Se nemmeno la dura realtà e i moniti pressoché unanimi del mondo scientifico hanno spinto i cosiddetti grandi della terra ad agire, non si capisce più cosa possa smuoverli.
Da oltre un anno, grazie a Greta Thumberg, è nato FridayForFuture, capace di manifestare con continuità la sua preoccupazione per il pianeta, oltre una angosciosa domanda alla politica di agire. Se ne sono accorti un po’ tutti, compreso i media, anche se spesso in modo truffaldino, tutti meno i decisori, quelli importanti e quelli meno. Mai come ora i due mondi, quello della società civile e quello della politica sono apparsi tanto distanti e senza comunicazione fra loro. E’ una rottura che fa paura, non perché ci mostra la loro insensibilità, ma perché racconta anche la nostra debolezza. Come è possibile che dopo un anno di mobilitazioni, i decisori politici ci ignorino e non sentono l’urgenza di prendere qualche decisione?
Parlare male dei Trump, Bolsonaro serve a poco, così come denunciare l’impotenza di Europa, Cina, Russia e India. Forse è bene che si affrontino anche i nostri limiti, capendo che quello che fin qui abbiamo messo in campo è insufficiente. Non gli fa nessuna paura di essere cacciati dal potere, l’unico linguaggio che sentono.
Prendere atto della nostra debolezza è facile a dirsi e difficile a farsi. Non basta riprendere le nostre manifestazioni se non si capisce come fare perché incidano di più. Il movimento ha bisogno di cambiare pelle, definire un suo progetto e trasformarlo in vertenze. E’ tempo di allargare lo sguardo, incontrare gli altri movimenti e le loro ragioni, quello femminista, quello per la pace e contro gli armamenti, quello per la giustizia sociale, quello per le libertà e nuovi diritti. Sarebbe straordinario e coinvolgente legare le mobilitazioni studentesche all’apertura, scuola per scuola, di una vertenza per avere i luoghi in cui si studia ad emissione zero. Altrettanto mobilitante sarebbe rispondere al destino precario, a cui vengono condannati milioni di giovani donne e uomini, coinvolgendoli nella costruzione di un nuovo modello energetico, rinnovabile e poco bisognoso di energia, proponendo nuovi stili di vita, la difesa del territorio, una riduzione del consumo di suolo, come le chiavi per produrre lavoro e ricchezza, smettendo di illuderli che la medicina possa essere la crescita, che da anni è senza lavoro e senza benessere. Allargare lo sguardo al movimento femminista che lotta contro il patriarcato, capendo che l’altra faccia del dominio sulla donna, è la violenza sulla natura.
Insomma la continuità della mobilitazione è indispensabile, ma per durare nel tempo e incidere nelle decisioni ha bisogno di vertenzialità e soprattutto di contaminare e farsi contaminare.