Nelle lettere a Giulia Schucht, Antonio Gramsci rivela un aspetto originale ed estremamente valido per interpretare oggi la crisi della sinistra. Non ci si può interessare di una collettività, diceva, «se non si è mai amato profondamente delle singole creature umane»

Il 14 ottobre 1926 Antonio Gramsci scrisse una lettera a Giulia in cui scherza su un assurdo concorso del quotidiano Il Piccolo intorno ai diversi gradi di felicità delle donne sposate, chiamando in causa Alexsandra Kollontaj, la rivoluzionaria russa che auspicava un cambiamento nelle relazioni tra uomini e donne al tempo del sogno socialista. Nello stesso giorno Gramsci scrisse un’altra lettera, di ben diverso tenore, indirizzata a Palmiro Togliatti, a Mosca, affinché recapitasse al Comitato centrale del partito comunista russo il suo chiaro messaggio: non fate una scissione adesso perché avete una responsabilità enorme nei confronti delle masse popolari e degli altri partiti comunisti.

In questo contesto storico si dipana la storia d’amore tra il comunista sardo e la giovane Giulia Schucht, conosciuta in Russia alla fine del 1922, mentre Gramsci si trovava a Mosca per partecipare ai lavori dell’Internazionale comunista. Dal 1922 al 1937, l’anno della morte di Antonio dopo undici anni di carcere, i due vissero uno straordinario e intenso rapporto da cui nacquero due figli. A parte i brevi periodi in cui poterono frequentarsi, tra il soggiorno di lui a Mosca fino a quasi tutto il 1923 e quello di lei a Roma nel 1925, la loro storia d’amore si manifestò tutta attraverso uno scambio epistolare.

Può una raccolta di lettere d’amore contenere anche un significato politico dirompente? Leggendo le lettere d’amore, fervide e appassionate, di Antonio Gramsci a Giulia Schucht, si ha l’impressione di ritrovare…

L’articolo di Giuseppe benedetti e Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola dal 3 gennaio

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