La democrazia si fonda sul principio di uguaglianza, cioè sul riconoscimento a ognuno di uguali diritti e doveri. Tuttavia questa enunciazione formale non determina una reale parità fra cittadini per l’intervento di altri elementi ostativi, come il diverso ceto di provenienza. È evidente infatti come a fronte di un diritto uguale per tutti, possano intervenire fattori esterni capaci di condizionarne il godimento: così laddove è riconosciuto formalmente a tutti il diritto allo studio, sussistono differenze nelle reali possibilità di goderne in uguale misura tra chi ha un reddito o un patrimonio tale da poter impegnare tempo e risorse nella propria formazione e chi invece questa possibilità non ce l’ha, stretto dalla necessità di percepire un reddito o alleggerire il peso del proprio sostentamento sulle spalle della famiglia di provenienza.
Si tratta di una condizione che era ben presente ai membri dell’Assemblea costituente, che dopo aver enunciato il principio di uguaglianza quale cardine su cui si fondava la nuova Repubblica, avevano previsto anche un impegno pratico, un compito concreto cui lo Stato era chiamato, nella seconda parte dell’art. 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Eppure in Europa e negli Stati Uniti il mito della crescita infinita e della mobilità sociale aveva illuso molti, nel trentennio successivo al secondo dopoguerra, definito “glorioso” dall’economista francese Thomas Piketty, che tali discrepanze sarebbero state gradualmente diminuite, fino ad essere assorbite dalla progressiva crescita sociale dei ceti più deboli, con i figli destinati a guadagnare una qualità della vita migliore di quella dei propri genitori. In Italia in particolare, con il boom economico, molti pensarono che il conflitto fra classi sociali sarebbe stato sedato dal progressivo miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici.
Un mito, quello della crescita infinita, che si scontra con le ripetute crisi finanziarie globali: difficile ipotizzare che sia un caso che i “gloriosi trent’anni” di cui parla Piketty terminino quasi in perfetta coincidenza con la crisi inflazionistica del 1974, dovuta all’aumento del prezzo del petrolio. D’altronde anche un rapporto Unicef del 2014 dimostrava come la crisi economica del 2008 avesse determinato nei cosiddetti “Paesi ricchi”, una diminuzione del benessere dei bambini rispetto a quelli della generazione precedente. I numeri dunque restituiscono l’immagine di un sistema non solo incapace di creare ricchezza continua, ma anche inefficiente quando si tratta di distribuire la stessa all’interno dei singoli sistemi-Paese.
I dati raccolti da Istat e Ocse circa la mobilità sociale in Italia non sono confortanti: l’elasticità di guadagno intergenerazionale, cioè la possibilità che i figli guadagnino quanto i propri genitori, risulta molto elevata, tanto che passare da una fascia di reddito bassa ad una media potrebbe rendere necessario l’impiego di cinque generazioni nel corso di cento anni. Uno studio degli economisti Guglielmo Barone e Sauro Moccetti, pubblicato sul sito della Banca d’Italia, descrive una situazione ancora più cristallizzata: prendendo in esame i dati disponibili per la città di Firenze sin dal 1427, i patrimoni familiari sarebbero pressoché invariati da addirittura seicento anni, circa venti generazioni, con una certa tendenza di avvocati, banchieri, medici, farmacisti e orafi ad avere discendenti che praticano il loro stesso mestiere, l’accesso al quale è invece più difficile per discendenti di famiglie collocate in un ceto sociale più basso.
Questa scarsa mobilità sociale incide negativamente non solo sulla democrazia reale, impedendo di fatto che tutti godano effettivamente dei diritti garantiti dalle costituzioni democratiche, ma anche sul sistema economico, limitando fortemente la possibilità di elementi validi ma di estrazione sociale medio bassa, di ricoprire ruoli nei quali sarebbe maggiore l’apporto garantito al progresso collettivo: un fenomeno che finisce per frenare lo sviluppo quasi in ogni campo e che si pone in totale opposizione a quel “pieno sviluppo della persona umana “ cui ogni sistema dovrebbe tendere. Anche nel campo della cultura e della creatività c’è chi lancia l’allarme: Tiziano Bonini, autore radiofonico, scrittore e ricercatore in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive dell’Università di Siena, ha denunciato la presenza di «una classe che continua a produrre simboli, rappresentazioni del mondo, opinioni, narrazioni e una classe che le consuma, senza avere accesso ai mezzi di produzione». E quale sarebbe l’elemento distintivo fra queste due categorie? Ancora una volta la provenienza da famiglie che vivono in zone urbane, colte e con maggiore disponibilità economica, che permette ai più ricchi di formarsi, fare esperienze all’estero, partecipare a stage non retribuiti presso industrie culturali (case editrici, giornali, radio, tv) e rende la cosiddetta “gavetta” non più solo un dovere, ma un vero privilegio che, come tale, è riservato a pochi.
Questo aspetto non dovrebbe essere sottovalutato dalle forze progressiste che dichiarano di volersi far carico dell’elevazione morale e materiale della “working class”, contrapponendo al privilegio la meritocrazia, invocata quale panacea di tutti i mali. È evidente infatti come, sebbene la meritocrazia rappresenti un valore irrinunciabile, essa si riveli un grande inganno se chi misura l’ordine di arrivo non ha vigilato che le condizioni di partenza siano state le stesse per tutti. Se studiare è più facile per chi proviene dai ceti più abbienti, è facilmente prevedibile chi sarà ad ottenere i risultati migliori, in minor tempo, presso istituti di maggior prestigio. In Italia fu proprio il primo segretario del neonato Partito democratico, Walter Veltroni, a denunciare in apertura di un congresso la “rottura dell’ascensore sociale”: peccato che poi le scelte politiche dei i governi sostenuti dal Pd non abbiano mai dato in merito segni di sostanziale discontinuità rispetto alla destra, con la suddivisione fra chi ha maggiori possibilità di successo e chi non le ha che non è stata nemmeno scalfita.
Un aspetto che sembra permeare la vita di ognuno sin dai primissimi passi, come dimostra l’episodio che ha visto la scuola elementare IC di Via Trionfale a Roma presentare il proprio istituto dividendo in distinte classi sociali i bambini che frequentano le diverse sezioni, descrivendo quali siano quelle frequentate da professionisti e quali quelle con una maggiore presenza di bambini appartenenti a famiglie immigrate. Tutto ciò contribuisce a costruire una visione della società, dei modelli economici e della convivenza, imperniata sull’assunto che il successo rappresenti di per sé un elemento meritocratico, senza alcun riguardo verso le difficoltà che le classi svantaggiate devono affrontare per arrivare allo stesso punto sul traguardo, con una distorsione della realtà che arriva ad imputare l’insuccesso come una responsabilità di chi non ce la fa, non è competitivo, è incapace di adeguarsi agli standard richiesti o non ha voluto investire su sé stesso, anche quando, semplicemente, non era nelle condizioni di poterlo fare.
Ripartire dal riconoscimento delle diverse condizioni di partenza e impegnarsi nella rimozione degli ostacoli reali che incontra chi non proviene da una famiglia agiata, colta, in grado di sostenere ogni legittima aspirazione di miglioramento, è il dovere principale di chiunque oggi voglia rappresentare le istanze progressiste: per essere di sinistra non basta richiamarsi a valori come tolleranza e accoglienza, se non si comprende che sono figlie di questa visione anche le aberrazioni che spingono a vedere nella povertà una colpa, producendo ordinanze che vietano l’accattonaggio o multano chi rovista nei cassonetti, come se chi è costretto a farlo fosse nelle condizioni di poter pagare la propria indigenza.
Non mettere questo aspetto al centro della propria azione politica sarebbe invece funzionale soltanto a chi trae vantaggio dalle disuguaglianze, per speculazioni economiche o politiche, fondate sulla stigmatizzazione di chi rimane indietro che, nel migliore dei casi approdano a soluzioni assistenzialistiche che poco si discostano concettualmente dall’elemosina del ricco verso il povero, mentre nel peggiore finiscono con la demonizzazione di chi non ha nulla, vissuto come una minaccia per chi invece ha una posizione privilegiata, fosse anche di pochissimo. Rinunciare al contributo di quanti, per origini o vissuto, a parità di talento sarebbero in grado di garantire un approccio meno conforme alle cose e portare una sensibilità arricchita da un’esperienza diversa, sarebbe una responsabilità gravissima per chiunque creda ancora nell’idea di progresso collettivo e democrazia. Una responsabilità che, al netto di ogni valutazione legata al concetto stesso di giustizia sociale, non possiamo più evitare di assumerci.