«Ci rubano il lavoro!» gridano da anni con le vene del collo ingrossate. «Ci rubano il lavoro!» scrivono sui manifesti elettorali. E così il giochetto del pensiamo prima a noi viene facile facile, non c’è nemmeno bisogno di spingerlo troppo.
Solo che senza i lavoratori stranieri accade che nell’edilizia in alcune zone non si sia nemmeno in grado di costruire una cuccia per il cane, accade che il prosecco rimanga negli acini e accade, come sta accadendo, che la frutta e la verdura non riescano nemmeno ad arrivare agli scaffali del supermercato.
Così eccoci qui, nel bel mezzo di un dibattito assurdo in cui non si vuole regolarizzare chi sarebbe disponibile a lavorare ma allo stesso tempo non si trovano italiani che vogliano farlo e chi decide di non decidere (come al solito con la Lega in testa) semplicemente non sta proponendo nessuna soluzione: se si riuscisse a spostare la discussione dallo straniero al più generico lavoratore ci si accorgerebbe che della nazionalità agli imprenditori del settore agricolo (quelli onesti) interessa ben poco, servono le braccia.
Il dibattito sull’eventuale regolarizzazione però nasconde tutta l’etica imprenditoriale italiana quando dà il peggio di se stessa: le persone servono solo per il momento che servono, i diritti sono solo una gentile concessione che serve a regolarizzare la fatica, le persone esistono solo quando producono. E forse qualcuno dovrebbe avere il coraggio di riconoscere che l’agricoltura in Italia (come la logistica, i servizi, l’edilizia e altro) si sostiene sul caporalato e sul lavoro nero, quello che schiavizza le persone e che ruba soldi agli ospedali, ai servizi, allo Stato.
C’è anche un altro aspetto interessante, per tutti i nostri patrioti che vogliono difendere il lavoro dalla sostituzione etnica e dai lavoratori stranieri: potete andare a lavorare, eccolo qui il lavoro. O forse bisognerebbe avere il coraggio di dirsi che ci sono mestieri (anzi: condizioni lavorative) indegni di un Paese civile.
Che aspettate, fatevi sotto.
Buon venerdì.