In tempi di polemiche feroci e di ritorno in piazza delle donne per difendere diritti faticosamente conquistati e sempre in pericolo, una lettera pubblicata nella rubrica di Concita De Gregorio su Repubblica, apparentemente neutra, entra pesantemente nel dibattito, cominciando dal titolo (“Una pillola che lascia sole”) e dalla foto che completa la lettera, quella di una donna, una mamma, con il suo bambino. Tutto per ribadire e rafforzare un concetto falso ma evidentemente per molti rassicurante, cioè che l’aborto, spontaneo o volontario, è sempre un dolore. Un concetto che tutti si sentono in dovere di dichiarare come premessa necessaria quando parlano di aborto, ma che è lontanissimo dalla realtà, perché se l’aborto per alcune donne è un dolore, per altre non lo è affatto.
Di fronte ai sentimenti e ai vissuti personali, la solidarietà umana ci obbligherebbe a stare in punta di piedi, a rispettare, a non giudicare. E invece , spingendo senza scrupoli il tasto della emotività suscitata da una vicenda personale, si sceglie di entrare a gamba tesa in un dibattito già di per se' aspro, senza conoscere la realtà. La realtà è che se ci sono tante donne che vivono l’aborto (anche quello spontaneo) con dolore, come la signora della lettera, ce ne sono moltissime per le quali l’aborto è una scelta priva delle tinte fosche della disperazione e della terribilità, donne che hanno deciso responsabilmente che la maternità in quel momento della loro vita non può essere, donne che hanno scelto di non essere madri e che hanno il diritto di non essere trascinate sotto i riflettori violenti dei mezzi di comunicazione di massa.
Le pillole non lasciano sole le donne, anche se evidentemente la signora che scrive a Concita De Gregorio si è sentita terribilmente sola, perché purtroppo, spesso, il ricovero in ospedale impone una solitudine e una distanza inevitabili.
Dal 2013, grazie ad una specifica determina Aifa, per le donne che hanno avuto un aborto spontaneo entro la decima settimana è possibile la somministrazione di quelle pillole a casa, con la vicinanza e l'assistenza delle persone a loro care. Certamente per la signora che scrive a Concita De Gregorio il vissuto doloroso sarebbe stato lo stesso, ma non sarebbe stata sola.
La somministrazione a casa delle prostaglandine non è possibile, invece, per le donne che decidono di interrompere una gravidanza non voluta. Perché, al di là delle inutili dichiarazioni di principio ("io sono a favore della legge 194"), le donne che decidono di abortire devono essere ostacolate, punite, sequestrate per giorni, lasciate sole in un letto di ospedale; perché per loro l'idea che possano stare a casa loro, con le persone a loro care, sembra quasi una bestemmia.
Nel resto del mondo, almeno fino alla settima settimana, l'aborto volontario farmacologico è una procedura ambulatoriale. Contrariamente a quanto paventavano coloro che ritengono le donne povere stupidine bisognose di tutela, non ha minimamente interferito con il contenuto morale della scelta, non la ha banalizzata e non ha portato ad un aumento del ricorso all'aborto volontario. La letteratura scientifica ci dice che la stragrande maggioranza delle donne valuta positivamente la procedura farmacologica e la consiglierebbe a donne che dovessero trovarsi nelle stesse condizioni.
Dare voce ad un'esperienza negativa, certamente non l'unica, senza commentare; mettere in piazza il dolore senza dare spazio ad esperienze, ragionamenti, valutazioni che possano mettere quell'esperienza all'interno della complessità della realtà, non è un agire neutro ed equidistante. Questa lettera, il dolore con cui è stata scritta, ci impone un ragionamento sulle modalità della comunicazione, soprattutto in relazione a temi cosiddetti"sensibili" e in generale sull'etica della professione di giornalista. Da medico, impegnata nel campo dei diritti riproduttivi, ricevo spessissimo richieste per avere storie - ovviamente in anonimato - di donne che hanno abortito. Ho sempre rifiutato questo ruolo, perché, proprio da medico, sono convinta che il mio dovere sia quello di rispettare il vissuto e le esperienze altrui, stando al fianco delle libere scelte delle persone.
Sono convinta che il mio dovere sia di spiegare quello che so dalla scienza, di parlare di embrioni e feti e non di bambini, per sottrarre quel dolore, qualora ci sia, ai riflettori, mettendolo nella giusta dimensione, per non lasciare nessuna da sola.
*-*
L'autrice: Anna Pompili è medico ginecologo presso i consultori della ASL RM1 e presso il servizio di Interruzioni Volontarie di Gravidanza dell’ospedale San Giovanni di Roma. E’ professoressa a contratto della Scuola di specializzazione in Farmacologia Medica, Università degli Studi di Roma “Sapienza”. Da sempre impegnata nel campo dei diritti riproduttivi, è cofondatrice di AMICA (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto)
In tempi di polemiche feroci e di ritorno in piazza delle donne per difendere diritti faticosamente conquistati e sempre in pericolo, una lettera pubblicata nella rubrica di Concita De Gregorio su Repubblica, apparentemente neutra, entra pesantemente nel dibattito, cominciando dal titolo (“Una pillola che lascia sole”) e dalla foto che completa la lettera, quella di una donna, una mamma, con il suo bambino. Tutto per ribadire e rafforzare un concetto falso ma evidentemente per molti rassicurante, cioè che l’aborto, spontaneo o volontario, è sempre un dolore. Un concetto che tutti si sentono in dovere di dichiarare come premessa necessaria quando parlano di aborto, ma che è lontanissimo dalla realtà, perché se l’aborto per alcune donne è un dolore, per altre non lo è affatto.
Di fronte ai sentimenti e ai vissuti personali, la solidarietà umana ci obbligherebbe a stare in punta di piedi, a rispettare, a non giudicare. E invece , spingendo senza scrupoli il tasto della emotività suscitata da una vicenda personale, si sceglie di entrare a gamba tesa in un dibattito già di per se’ aspro, senza conoscere la realtà. La realtà è che se ci sono tante donne che vivono l’aborto (anche quello spontaneo) con dolore, come la signora della lettera, ce ne sono moltissime per le quali l’aborto è una scelta priva delle tinte fosche della disperazione e della terribilità, donne che hanno deciso responsabilmente che la maternità in quel momento della loro vita non può essere, donne che hanno scelto di non essere madri e che hanno il diritto di non essere trascinate sotto i riflettori violenti dei mezzi di comunicazione di massa.
Le pillole non lasciano sole le donne, anche se evidentemente la signora che scrive a Concita De Gregorio si è sentita terribilmente sola, perché purtroppo, spesso, il ricovero in ospedale impone una solitudine e una distanza inevitabili.
Dal 2013, grazie ad una specifica determina Aifa, per le donne che hanno avuto un aborto spontaneo entro la decima settimana è possibile la somministrazione di quelle pillole a casa, con la vicinanza e l’assistenza delle persone a loro care. Certamente per la signora che scrive a Concita De Gregorio il vissuto doloroso sarebbe stato lo stesso, ma non sarebbe stata sola.
La somministrazione a casa delle prostaglandine non è possibile, invece, per le donne che decidono di interrompere una gravidanza non voluta. Perché, al di là delle inutili dichiarazioni di principio (“io sono a favore della legge 194”), le donne che decidono di abortire devono essere ostacolate, punite, sequestrate per giorni, lasciate sole in un letto di ospedale; perché per loro l’idea che possano stare a casa loro, con le persone a loro care, sembra quasi una bestemmia.
Nel resto del mondo, almeno fino alla settima settimana, l’aborto volontario farmacologico è una procedura ambulatoriale. Contrariamente a quanto paventavano coloro che ritengono le donne povere stupidine bisognose di tutela, non ha minimamente interferito con il contenuto morale della scelta, non la ha banalizzata e non ha portato ad un aumento del ricorso all’aborto volontario. La letteratura scientifica ci dice che la stragrande maggioranza delle donne valuta positivamente la procedura farmacologica e la consiglierebbe a donne che dovessero trovarsi nelle stesse condizioni.
Dare voce ad un’esperienza negativa, certamente non l’unica, senza commentare; mettere in piazza il dolore senza dare spazio ad esperienze, ragionamenti, valutazioni che possano mettere quell’esperienza all’interno della complessità della realtà, non è un agire neutro ed equidistante. Questa lettera, il dolore con cui è stata scritta, ci impone un ragionamento sulle modalità della comunicazione, soprattutto in relazione a temi cosiddetti”sensibili” e in generale sull’etica della professione di giornalista. Da medico, impegnata nel campo dei diritti riproduttivi, ricevo spessissimo richieste per avere storie – ovviamente in anonimato – di donne che hanno abortito. Ho sempre rifiutato questo ruolo, perché, proprio da medico, sono convinta che il mio dovere sia quello di rispettare il vissuto e le esperienze altrui, stando al fianco delle libere scelte delle persone.
Sono convinta che il mio dovere sia di spiegare quello che so dalla scienza, di parlare di embrioni e feti e non di bambini, per sottrarre quel dolore, qualora ci sia, ai riflettori, mettendolo nella giusta dimensione, per non lasciare nessuna da sola.
*-*
L’autrice: Anna Pompili è medico ginecologo presso i consultori della ASL RM1 e presso il servizio di Interruzioni Volontarie di Gravidanza dell’ospedale San Giovanni di Roma. E’ professoressa a contratto della Scuola di specializzazione in Farmacologia Medica, Università degli Studi di Roma “Sapienza”. Da sempre impegnata nel campo dei diritti riproduttivi, è cofondatrice di AMICA (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto)