Fra due mesi, Giuseppe Diodato festeggerà il compleanno con sua moglie e i suoi figli. Giuseppe – chiamato in realtà Beppe da tutti – lavora nella comunicazione e sua moglie l’ha conosciuta ai tempi dell’università, a Bologna. E invece no. Non è vero niente. A Giuseppe Diodato, tutto questo è stato negato. Perché a Giuseppe Diodato, la vita gliel’hanno strappata il 27 giugno 1980 nel cielo di Ustica. Un missile ha fatto scoppiare il suo futuro insieme a quello di altre 80 persone, e lui, Giuseppe, rimarrà per sempre un bambino di 10 mesi. La vittima più giovane di una Storia che ha improvvisamente interrotto le storie di uomini, donne, bambini, anziani che conducevano quella vita che banalmente sintetizziamo come “normale”. Perché “normale” è andare in vacanza, “normale” è spostarsi per lavoro, “normale” è raggiungere parenti o amici con un treno, una macchina, un aereo.
Beh, quel giorno di giugno di quarant’anni fa – «d’improvviso» – la bellezza della normalità fu oltraggiata da una rasoiata della Storia, una delle tante. Una di quelle che sfregiano le persone “normali”, quelle che fanno una vita “normale”, e che – «d’improvviso» – saltano per aria in una stazione ferroviaria, una piazza, una banca, un treno, un aereo. In questo caso, l’aeromobile Douglas DC 9 dell’Itavia partito dall’aeroporto di Bologna con destinazione Palermo.
Una strage, quella nei cieli di Ustica, inseritasi coerentemente nel filone delle stragi italiane segnate da depistaggi, imbrogli, reticenze, falsità, e tutto quel che di peggio si può immaginare relativamente alla ricerca della verità. Perlomeno, quella giudiziaria. Da piazza Fontana in avanti, anzi, volendo essere più storicamente pignoli, da Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 in avanti – le stragi, ora per questo, ora per quello, hanno falcidiato le vite di centinaia di “persone normali”. Persone che cioè non avevano alcuna ambizione eroica, tantomeno votate al “martirio”, come risibilmente si sente spesso dire per le vittime di questa o quella strage. Una sciocchezza inenarrabile, ché il martirio è sacrificio della vita in nome della fede e, nella fattispecie di quegli eccidi – da Portella a Ustica, vicine per geografia e lontane per epoche – non c’era nessun aspirante martire. Di nessuna Chiesa. (Come nessun martire dobbiamo contare fra tutte le vittime delle tante, troppe stragi italiane).
Non martiri né eroi dunque, ma tutte persone “normali”, la cui storia è finita nella Storia non per loro volontà, ché loro avrebbero consumato le loro vite nei giorni segnati dai compleanni, i matrimoni, le lauree, le assunzioni per quel nuovo lavoro così tanto ambito, i giorni radiosi e quelli scuri, delle lacrime e del riso. Normali.
“Ultime su Ustica” confermano il sospetto che a falcidiare le vite di quelle 81 “persone normali” fu un missile che aveva come obiettivo un aereo militare dell’areonautica libica Gheddafi – da tempo nel mirino degli americani, come dimostra il bombardamento (infruttuoso per la soffiata fatta arrivare al colonnello libico dal governo italiano) – di Tripoli e Bangasi dell’86 per volere di Ronald Reagan. Ma invece di colpire l’aereo di Gheddafi di ritorno dalla Bulgaria, dopo aver fatto “spese militari”, il razzo colpì il Dc 9 dell’Itavia.
Altre “Ultime su Ustica” suonano campane diverse, e cioè che a far esplodere l’aereo fu una bomba collocata nella toilette. Dalla scatola nera emerse l’assoluta regolarità del volo, come testimoniano le registrazioni delle voci del comandante e del copilota che si raccontavano barzellette, fino a quando, interrompendo la barzelletta in essere, si sente un’esclamazione dal copilota: «Gua’…». Un’esclamazione che si completa lo scorso 10 giugno, quando, grazie a una nuova perizia che ha potuto contare su una migliore pulizia della registrazione audio, l’esclamazione diventa: «Guarda…cos’è?». È il missile che sta per colpirli. Relativamente alla tesi della bomba a bordo, le autopsie su 7 cadaveri dimostrarono come fosse da escludere che i corpi estrani rinvenuti nei corpi fossero riconducibili a un ordigno esplosivo.
La strage di Ustica avviene poco più di un mese prima di quella della stazione di Bologna e non è mancato chi – acrobaticamente – ha cercato di unire i due eccidi sotto un’unica regia. Le (tante) carte dicono altro. Dicono cioè che si tratta di due stragi assolutamente slegate fra loro. A livello processuale, cioè quel “luogo” della ricerca della verità cui bisogna attenersi, ché – fino alla prova del contrario – il resto, tutto il resto, è «chiacchiera e tabacchiere ‘e lign», il 10 settembre 2011, il ministero della Difesa e dei Trasporti sono stati condannati al pagamento in solido di 100 milioni di euro a favore di 42 familiari delle vittime, per non aver agito correttamente nel controllo di quello spazio aereo interessato dalla rotta di un aereo civile, quando si era a conoscenza del fatto che in quel periodo quei cieli fossero attraversati da diverse operazioni militari, oltre ad aver cercato di impedire l’accertamento della verità.
La sentenza esclude anche che la causa della strage sia stata una bomba a bordo. Sentenza confermata due anni dopo dalla Cassazione. Un ulteriore ricorso da parte dell’avvocatura dello Stato è stato rigettato dalla corte d’Appello di Palermo nel giugno del 2017, che ha contestualmente riconfermato la causa dell’eccidio in un atto ostile da parte di un aereo militare straniero che avrebbe lanciato un missile. Un missile non destinato all’Itavia, ma che tuttavia colpì il Dc 9 di quella compagnia cui il 12 dicembre successivo (quando si dice le combinazioni… cioè nell’11° anniversario della strage di piazza Fontana) fu revocata la licenza di operatore aereo.
Interrogato dal giudice Santacroce, Aldo Davanzali, azionista di maggioranza e amministratore dell’Itavia, era stato incriminato per “dichiarazioni false e tendenziose” per aver detto – testualmente – riferendosi al suo aereo: «Me l’ha buttato giù un missile». Con le stesse motivazioni a favore dei familiari delle vittime, nel 2018, la Cassazione ha condannato i ministeri delle Infrastrutture e della Difesa a risarcire gli eredi di Aldo Davanzali. E questo è l’ultimo capitolo di una storia non ancora finita. Al prossimo anniversario…