Cinquant’anni fa, il 4 settembre del 1970, Salvador Allende veniva eletto presidente del Cile. Aveva l’ambizione di realizzare una transizione pacifica alla democrazia. Proponeva una “via cilena al socialismo”. Da capo dello Stato, operò un’ampia nazionalizzazione di diversi settori economici e numerose politiche sociali. Ma l’11 settembre 1973, precisamente quarantasette anni fa, Allende si suicidò mentre l’esercito cileno bombardava il palazzo presidenziale della Moneda dando il la al colpo di Stato del generale Pinochet. E divenne così un mito. Il golpe del ’73 gettò il Cile in una dittatura militare fino al 1990. Alla caduta del regime, però, la transizione democratica non fu mai stata portata a termine fino in fondo.
Èd è proprio questa la richiesta che oggi avanzano numerosi cittadini cileni: liberarsi una volta per tutte dall’eredità di Pinochet incarnata dalla Costituzione ereditata dalla dittatura, modificandola attraverso un referendum.
Le proteste in Cile sono iniziate il 18 ottobre 2019, quando la popolazione si era sollevata contro l’aumento del prezzo dei mezzi pubblici a Santiago. Successivamente la mobilitazione ha puntato più in alto, arrivando a chiedere una definitiva trasformazione democratica del Paese.
Il referendum per rivedere la Costituzione, inizialmente previsto per il 26 aprile, è stato posticipato al 25 ottobre a causa dell’emergenza sanitaria. Tra poco più di un mese, se il referendum sarà confermato, i cileni saranno quindi chiamati ad esprimersi alle urne. I quesiti saranno due. Il primo riguarda la volontà di modificare la Carta costituzionale. Il secondo riguarda il metodo con cui eventualmente si dovrà operare questo cambiamento, tramite una assemblea costituente composta da cittadini eletti dal popolo o un’assemblea “mista” composta per la metà da cittadini eletti e per l’altra da parlamentari. Secondo i sondaggi, una netta maggioranza dei cittadini sarebbe favorevole al rinnovamento della Legge fondamentale cilena.
Dalla fine di agosto, la campagna referendaria è ricominciata. I diversi partiti della sinistra si sono mobilitati e hanno formato il Comando Chile digno, che ha chiesto al governo in una lettera che la campagna in vista del “plebiscito” sia dichiarata “attività fondamentale” in modo che non possa essere bloccata dalle normative anti-Covid.
La decisione del governo di fare un referendum per rispondere alle richieste della popolazione lascia un barlume di speranza in un possibile cambiamento, mentre purtroppo l’esecutivo guidato da Sebastian Pinera non si allontana dal solco tracciato dalla dittatura militare. Un chiaro esempio è la nomina di Victor Pérez a ministro dell’Interno lo scorso luglio. Pérez è un uomo politico dell’era di Pinochet. È stato sindaco, incaricato dal regime, della città di Los Angeles, capoluogo della regione del Biobio, tra 1981 e 1987, luogo in cui la Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione cilena (come traspare nel Rapporto Rettig) ha documentato numerosissime e gravi violazioni dei diritti umani durante la dittatura.
Pérez è anche accusato dall’associazione delle famiglie delle vittime e dei desaparecidos della regione del Maule di aver intrattenuto legami con la Colonia Dignidad, luogo di detenzione, di tortura e di eliminazione degli opponenti politici durante la dittatura fondato dall’ex soldato nazista delle Ss Paul Schafer.
Inoltre, il governo continua ad essere indifferente alle richieste del popolo indigeno Mapuche. Durante l’estate, alcuni prigionieri politici mapuche hanno messo in atto uno sciopero della fame per protestare contro la scelta di escluderli dalle misure che hanno parzialmente diminuito la popolazione carceraria, permettendo di scontare la pena fuori dai penitenziari.
In questo contesto, il referendum di ottobre potrebbe rappresentare una reale svolta per il Paese. Ma, secondo il Comando Chile digno, il suo svolgimento ancora non è scontato e il governo potrebbe ancora fare dietrofront.