Papa Bergoglio si occupa nuovamente di aborto. Lo fa scendendo in campo contro le donne polacche, di nuovo in piazza nel loro Paese, dove si discute una proposta di legge che vuole riportare l’aborto nell’inferno della illegalità e delle pratiche clandestine. Lo fa con un atto fortemente simbolico, la benedizione di una campana che è stata chiamata «la voce dei non nati», commissionata dalla fondazione polacca “Sì alla Vita”. Benedicendola, il papa alza la voce, per dire che la campana dovrà ricordare, con il suo suono, il valore della vita umana, «dal concepimento alla morte naturale», risvegliando «le coscienze dei legislatori e di tutti gli uomini di buona volontà, in Polonia e nel mondo». Più che al suono della campana polacca, però, è attraverso un corposo documento elaborato dalla Congregazione per la dottrina della fede e da lui stesso approvato, che il papa pretende obbedienza da «politici, legislatori e da tutti gli uomini di buona volontà».
Dalle pagine della lettera Samaritanus bonus, sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita viene lanciato infatti un vero e proprio anatema contro le istituzioni e la politica che legittima «pratiche di morte» quali eutanasia, suicidio assistito, aborto. Riguardo quest’ultimo, il paragrafo 6 del documento si occupa in particolare del cosiddetto «aborto terapeutico». Da comunicatore esperto, il papa sa bene che nella vita reale le persone, anche moltissime di fede cattolica, sono favorevoli alla diagnosi prenatale e alla possibilità di interrompere la gravidanza in presenza di una patologia fetale non curabile. Per questo, il documento condanna violentemente «l’uso a volte ossessivo della diagnosi prenatale», che «può portare alla scelta dell’aborto, uccisione deliberata di una vita umana innocente». Non esclude, ovviamente, la diagnostica prenatale di per sé molto remunerativa ed ampiamente praticata da moltissimi istituti di ispirazione confessionale, ma ne condanna ipocritamente le finalità, qualora siano «selettive…espressione di una mentalità eugenetica». E ancora: «Nel caso di patologie fetali incompatibili con la vita – cioè che sicuramente porteranno a morte entro breve lasso di tempo – e in assenza di terapie fetali o neonatali in grado di migliorare le condizioni di salute di questi bambini, in nessun modo essi vanno abbandonati sul piano assistenziale, ma vanno accompagnati… fino al sopraggiungere della morte naturale». Dunque, i feti affetti da gravi patologie sono condannati alla nascita e alla sofferenza, «poiché nella sofferenza è contenuta la grandezza di uno specifico mistero che soltanto la Rivelazione di Dio può svelare».
Nasceranno, per essere affidati agli Hospice perinatali, dove potranno comunque avvalersi, con la famiglia, oltre che del supporto medico, di quello spirituale degli «operatori della pastorale». Purtroppo, ancora oggi, in Italia le donne con diagnosi di grave patologia fetale dopo la 22-24esima settimana, dopo cioè che il feto ha acquisito la possibilità di vivere autonomamente al di fuori dell’utero, non hanno alcuna possibilità di interrompere la gravidanza e per esse la sola prospettiva praticabile è quella di far nascere un figlio malato da affidare a un Hospice perinatale. In questa epoca gestazionale, infatti, l’aborto viene praticato con la somministrazione di farmaci che inducono un travaglio abortivo. Poiché l’articolo 7 della legge 194 afferma che «quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto… il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto», di fatto è esclusa la possibilità di soppressione del feto in utero, come succede in altri Paesi europei e come raccomandato dalle principali società scientifiche internazionali. Ciò comporta il rischio che, seppur gravemente malato, il feto possa nascere vivo, e che il medico debba rianimarlo, aggravando una situazione già drammatica di per sé. Le cittadine italiane che, in queste condizioni, dovessero decidere di interrompere la gravidanza, non hanno dunque alcuna possibilità di farlo in Italia e sono costrette a migrare all’estero, soprattutto in Francia, Grecia, Inghilterra, verso paesi più attenti alla salute delle donne. Così il mite Francesco, dopo aver parlato del principio di sussidiarietà e dell’aiuto alle fasce deboli della popolazione, si rivolge ai legislatori, facendo tuonare la voce della condanna. I toni durissimi del “Buon samaritano” non sono una novità, anche se è gravissimo l’imperativo col quale il documento si rivolge al legislatore e col quale si impone l’obiezione di coscienza o – laddove questa non sia prevista dalla legge – la disobbedienza civile. Non sappiamo quanti medici cattolici lo seguiranno su questa strada, giacché la disobbedienza civile è una scelta che comporta un rischio concreto, a differenza dell’obiezione di coscienza che viene premiata; ma non ci si può stupire: è ovvio che il papa dica queste cose. Non è normale, invece, che in uno stato laico queste parole abbiano un’eco e possano influenzare il comportamento di politici e legislatori.
Non è normale che la politica si preoccupi, quando prende decisioni, del gradimento dell’altra riva del Tevere, né che si preoccupi di bilanciare scelte non gradite al Vaticano con concessioni inimmaginabili, qual è ad esempio il conferimento a Monsignor Paglia, consigliere spirituale della comunità di Sant’Egidio, della presidenza della commissione sulla popolazione anziana istituita dal Ministero della Salute. La nomina del monsignore, infatti, segue a breve l’annuncio dell’aggiornamento delle linee di indirizzo sulla IVG farmacologica, che dovrebbero facilitarne l’accesso, permettendo il regime ambulatoriale ed estendendola a 9 settimane. Un annuncio che, peraltro, rimane ad oggi lettera morta, impossibile da mettere in pratica, giacchè le nuove linee di indirizzo non sono ancora state pubblicate. L’agnello misericordioso è dunque in realtà un lupo feroce, che non esita a mostrare gli artigli. Gli agnelli, invece, sono pavidamente seduti in parlamento, tremanti e pronti a genuflettersi ad ogni suo diktat. Perché in Italia la laicità è solo una parola, ed è a noi tutti, cittadine e cittadini, che spetta il compito di darle significato. Per quanto ci riguarda, ci impegneremo, da oggi, per cambiare l’articolo 7 della legge 194, perché anche in Italia si possa praticare l’aborto in utero. Perché vogliamo che anche alle donne finora costrette ad andare all’estero sia riconosciuto diritto di cittadinanza.
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L’appuntamento: venerdì 2 ottobre alle ore 19, la ginecologa Anna Pompili, cofondatrice di Amica-Associazione medici italiani contraccezione e aborto, coordina con la ginecologa Mirella Parachini la sessione sul tema dell’aborto al XVII Congresso dell’Associazione Luca Coscioni. L’incontro che si svolge online verrà trasmesso sul sito dell’Associazione Coscioni.
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