Ad alcune settimane da quando lo skipper Jean Le Cam salvava il suo collega Kevin Escoffier, naufragato 550 miglia a sud-ovest dal Capo di Buona Speranza durante la regata per barche a vela Vendé globe, dichiarando «secourir, ça fait partie de notre métier» (“soccorrere fa parte del nostro mestiere”) e all’indomani della discussione in Parlamento del decreto Immigrazione di cui abbiamo scritto insieme a Giorgia Linardi su queste pagine (v. Left del 4 dicembre, ndr), ci ritroviamo ancora a parlare dell’acqua come frontiera.
L’ipotesi da cui partiamo è quella che negare il diritto alla migrazione significhi negare la storia dell’umanità. Da sempre gli uomini hanno utilizzato l’acqua per varcare i confini, per andare oltre. I greci scrivevano del loro popolo di navigatori che «viaggiarono molto, presero e diedero, insegnarono e impararono». L’acqua ha sempre rappresentato un confine da oltrepassare. Il velista e scrittore francese Bernard Moitessier diceva dei navigatori in solitario: «Vogliamo sempre ripartire verso una linea dell’orizzonte che la barca non raggiungerà mai».
L’attraversamento del confine ha sempre coinciso con la scoperta di nuove rotte e spazi inediti, con l’esplorazione dell’ignoto e di ciò che resta in un’irriducibile lontananza ma continua a coincidere con la meta. Come ci insegna la fenomenologia, la tensione verso l’orizzonte e l’oltrepassamento del confine dell’attuale coincide anche con la scoperta dell’alterità.
Il problema dell’alterità, di come considerare l’altro, secondo quale narrazione, è alla base della comprensione del fenomeno migratorio. Già nelle più antiche narrazioni, dall’epopea di Gilgameš, all’Odissea a quelle bibliche, l’uomo si confronta con l’alterità, rappresentata da terre lontane e inesplorate, dallo straniero. L’alterità è il motore del processo creativo generativo, ciò che dà vita. L’altro è il motore del senso, l’alterità è il motore dell’umanità. Il rifiuto dell’alterità è quindi una follia sul piano etico ma anche sul piano logico. Non accettare lo straniero cortocircuita il senso dell’esistenza.
La dinamica delle migrazioni è l’arrivo di alterità. Il migrante, l’assoluto altro, rappresenta il simbolico di tutte le alterità. La mobilità umana crea il circuito virtuoso del confronto, dello scambio, dell’arricchimento. L’altro è portatore della benedizione del futuro. Sta a chi riceve far sì che diventi una risorsa.
Il nostro mare non è mai stato così profondo, abbiamo scritto su Left parafrasando Lucio Dalla. Per sottrarci al confronto con l’alterità, abbiamo respinto barche, bambini, donne, storie di uomini, speranze e promesse per il futuro fino al di fuori dei recinti dello spazio politico europeo, in quell’oceano esteso e denso che è nostro vicino. È ciò che ha portato l’amico Etienne Balibar a parlare di un olocausto nei nostri mari. Si è detto che aveva esagerato, a dispetto di tutte le leggi e trattati internazionali che…
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