Se ne sta in disparte la Conferenza episcopale italiana riguardo il dibattito sulla legge Zan. O almeno così pare. In realtà, come sempre quando di mezzo ci sono diritti civili “sgraditi” al Vaticano perché non coerenti con i capisaldi della cultura cattolica, anche in questo caso sono i vescovi a dettare la linea ai leader delle destre, e più in generale a tutti politici baciapile. Lo si nota mettendo a confronto i comunicati della Cei con le affermazioni fotocopia negli ultimi mesi dei vari Salvini, Meloni, Tajani e personaggi di contorno come Pillon. Quello che recitano costoro non è altro che lo spartito redatto dai vescovi quando nel giugno scorso il ddl Zan arrivò finalmente alla Camera (dove è stato approvato 5 mesi dopo). Non serve una nuova legge, «non solo non si riscontra alcun vuoto normativo, ma nemmeno lacune che giustifichino l’urgenza di nuove disposizioni» ammoniva il 10 giugno 2020 la Cei paventando anche «derive liberticide» in realtà inesistenti. Secondo i vescovi infatti sottoporre «a procedimento penale chi ritiene che la famiglia esiga per essere tale un papà e una mamma – e non la duplicazione della stessa figura – significherebbe introdurre un reato di opinione». E ancora: «Ciò limita di fatto la libertà personale, le scelte educative, il modo di pensare e di essere, l’esercizio di critica e di dissenso». Sappiamo che questa affermazione è falsa (anche solo per via dell’articolo 4 del ddl Zan, vedi box). Tuttavia essendo di facile comprensione e quindi di facile diffusione non a caso è la più gettonata dai leader politici oltre che da organizzazioni integraliste come Pro Vita et similia che stanno facendo propaganda in ogni dove per far fallire il voto in Senato.
O meglio, quella affermazione è solo parzialmente vera. È vero infatti che la legge già oggi prevede che l’istigazione alla discriminazione e alla violenza per ragioni etniche, nazionali e religiose sia considerato un reato con un’aggravante per delitti commessi per finalità di odio etnico, razziale o religioso (legge Mancino).
Quel che non vogliono la Cei e i suoi sodali è che i crimini d’odio o le aggravanti fondate su ragioni di odio debbano valere anche quando il bersaglio sono persone Lgbt e disabili. Dire dunque che questa equiparazione rischi di punire penalmente la propaganda a favore della famiglia cosiddetta tradizionale è dire il falso e farlo consapevolmente. Perché significherebbe che la legge Mancino punisce anche il proselitismo religioso, cosa che palesemente non fa e questo la Cei lo sa benissimo. Però tutto fa brodo.
Perché tanta agitazione dei vescovi? Forse perché è fondamentale impedire che si disvelino definitivamente anche da noi venti secoli di reiterata negazione di diritti umani e civili basata su fandonie violentissime sulla realtà umana e intromissione nella vita privata dei cittadini. Un piccolo esempio. «Gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati – cita il Catechismo al canone 2357 – Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita… In nessun caso possono essere approvati». E poi più avanti al canone 2360, il primo del capitolo intitolato “L’amore degli sposi”: «La sessualità è ordinata all’amore coniugale dell’uomo e della donna». La matrice di queste “idee” è il VI Comandamento (“Non commettere atti impuri”) ma non vi ricorda l’ultimo Tajani quando dice che la donna si realizza solo con la maternità e che la famiglia senza figli non esiste? La cultura della discriminazione delle persone omosessuali va dunque preservata perché porta con sé la visione dell’identità di donna che si realizzerebbe solo quando è moglie e madre. Una visione è bene ribadirlo tanto cara anche ai fascisti di ieri e di oggi.
È dunque lecito pensare che la strenua opposizione della Chiesa al ddl Zan vada ben oltre il rifiuto (a parole) dell’omosessualità. Addirittura potrebbe essere in gioco uno dei pilastri della cultura e del potere ecclesiastico il cui baricentro è in Italia. Forse è esagerato come pensiero. O forse no. Del resto sono ormai 25 anni che si tenta di varare una legge contro l’omofobia, visto che le prime proposte furono presentate nel 1996 quando era presidente del Consiglio Romano Prodi.
Nelle ultime tre legislature, prima del ddl Zan, il tentativo è stato poi affidato a parlamentari espressione dell’associazionismo Lgbt, come Franco Grillini o Anna Paola Concia, ma senza esito. Per capire in che modo la Chiesa gestisce queste situazioni e quale pericolo intraveda nel via libera al riconoscimento di determinati diritti, vale qui la pena ricordare cosa accadde alle due proposte di legge del 1996.
Nell’ottobre 1998, dopo la caduta di Prodi, il governo D’Alema volle “coprirsi” a sinistra mandando avanti temi sui diritti civili. Il deputato del Ppi Paolo Palma che ne fu relatore ha raccontato all’Ansa come andò. A fine maggio 1999, «una volta messo a punto il testo unificato volli confrontarmi con il mio vescovo (di Cosenza, ndr) e lui mi fece solo una piccola osservazione, peraltro di buon senso, che raccolsi». L’1 luglio 1999 il deputato cattolico presentò il testo unificato in Commissione. Come l’attuale testo Zan, si estendevano le sanzioni penali della legge Mancino ai comportamenti violenti o discriminatori motivati da ragioni di “orientamento sessuale”. In più vi erano norme sulla privacy e misure antidiscriminatorie sul lavoro e nella scuola. Il testo ebbe l’appoggio del governo e il sostegno della maggioranza (Ppi, Ds, Verdi, Socialisti) e del Prc.
L’opposizione ovviamente fu durissima, con An e Ccd in testa. Ci fu chi equiparò l’omosessualità alla pedofilia e chi, come Carlo Giovanardi (allora vice presidente della Camera), riuscì a dire che la legge avrebbe finito «per tutelare anche comportamenti sessuali quali il feticismo e l’ingresso nelle forze armate degli omosessuali dichiarati» (!?).
Dopo queste perle arrivò il primo siluro della Chiesa attraverso il cardinale Ersilio Tonini, influente “comunicatore” e molto presente in tv sui canali Rai durante gli anni Novanta: «Tonini non aveva letto il mio testo – racconta Palma – e fu subornato da Giovanardi, il più feroce avversario alla Camera». Il 2 ottobre 1999 Pieluigi Castagnetti venne eletto segretario del Ppi e chiese a Palma di andare a parlare con la Cei per tranquillizzarla: «Non ero entusiasta perché non mi piaceva l’idea che il legislatore dovesse passare gli scrutini della Chiesa, ma andai. Incontrai mons. Betori (che nel 2001 sarebbe diventato segretario generale della Cei, ndr) a cui spiegai che la legge non avrebbe scassato le famiglie ma solo protetto da discriminazioni e violenze delle persone deboli, ed era quindi una legge cristiana». «Lei ha ragione – disse Betori a Palma – ma noi guardiamo lontano; se ad un muro togli un mattone, poi l’edificio crolla». Una frase che da sola spiega tutto, no? Palma incontrò successivamente anche mons.
Antonelli, allora segretario generale della Cei, ma evidentemente non lo convinse. «Fecero delle pressioni fortissime per fermare tutto». In effetti poco dopo il governo D’Alema preannunciò un proprio disegno di legge che bloccò l’iter della legge, e dopo la sconfitta del centrosinistra alle regionali del 2000, l’esecutivo cadde. Il muro vaticano aveva tenuto.
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