Sblocco dei licenziamenti e liberalizzazione dei subappalti, in nome del profitto e in ossequio a Confindustria. Due milioni di lavoratori rischiano il posto e si “risparmia” sulla sicurezza, sebbene le imprese abbiano ricevuto il 74% dei soldi pubblici stanziati per l’emergenza. E i morti sul lavoro aumentano. Sarebbe questa la ripartenza?

È una strage. Solo nei primi quattro mesi di quest’anno sono stati trecentosei gli infortuni mortali sul lavoro. Trecentosei lavoratrici e lavoratori che non hanno mai fatto ritorno alle proprie famiglie.
Trecentosei vite spezzate da errori nelle procedure di sicurezza, dall’insufficienza dei controlli, dalla mancanza di manutenzione, dal mancato rispetto delle norme vigenti in materia di sicurezza sul lavoro, dalla stanchezza dovuta ai turni estenuanti.

Tutte morti che potevano essere evitate già in fase di valutazione dei rischi e con adeguate misure di carattere organizzativo. Ma se l’organizzazione non funziona è perché la produzione risponde male all’esigenza di aumento della produttività, che viene ricercata sempre di più nell’intensificazione dei ritmi di lavoro e nella deroga agli standard di sicurezza.

C’è qualcosa di profondamente ideologico in tutto ciò: ritroviamo in queste vicende le cause di una visione del mondo che guarda più all’accumulazione di profitto che alla salvaguardia della vita, nei casi di infortuni mortali sul lavoro così come nelle tragedie come quella del Mottarone.

Il problema è un intero sistema. Siamo un Paese con infrastrutture obsolete e gravi limiti manutentivi, in cui tantissime persone si muovono su mezzi vecchi e inadeguati, ogni giorno, sottoponendosi a un rischio altissimo.
Tracce di questa riflessione si trovano anche nella discussione di questi giorni sul blocco dei licenziamenti e la liberalizzazione dei subappalti. Ad esempio, un po’ sorprende la pretesa di Confindustria di sbloccare i licenziamenti già dal primo luglio. A ben vedere, però, di sorprendente non c’è nulla. Mutuando un’espressione dell’ex presidente di Confindustria Macerata, che recita «se qualcuno morirà, pazienza», si potrebbe dire “se qualcuno perderà il lavoro, pazienza”.

L’importante è il profitto. Il rischio di lasciare a casa fino a due milioni di lavoratrici e lavoratori, dopo aver ricevuto il 74% delle risorse pubbliche stanziate nell’anno del Covid, non ha alcuna importanza.
La battaglia sulla proroga del blocco dei licenziamenti è ancora aperta e intendiamo farla fino in fondo. Bisogna mettere in campo soluzioni per contrastare la disoccupazione crescente (solo nell’ultimo anno un milione di posti di lavoro in meno), per garantire la riqualifica professionale ed accompagnare la transizione economica di chi subirà lo sblocco con una seria riforma degli ammortizzatori sociali.

Senza la chiarezza necessaria su queste misure, non può esistere discussione sul tema licenziamenti. Altro fronte su cui ci troviamo è quello dei subappalti e del principio del massimo ribasso, che ha reso centrale il dibattito sul decreto Semplificazioni.

L’intento di velocizzare le opere infrastrutturali non può essere un mezzo per tornare alla giungla dei cantieri, all’apertura agli illeciti, al cottimo, alla liberalizzazione criminogena che fa comodo alle mafie.

In questo modo, non solo si negano i diritti fondamentali dei lavoratori, ma si dà man forte a quello stato di insicurezza sul lavoro che ci siamo ripromessi di combattere, nella Commissione d’inchiesta sul lavoro in Italia, con il contrasto alle esternalizzazioni selvagge.
Per questo è positivo aver espunto il principio del massimo ribasso.

Ora bisognerà tenere il punto sulle liberalizzazioni. Davanti a margini di profitto troppo bassi qualcuno vorrebbe poter ricorrere a sfruttamento e sottrazione di diritti, a scapito della sicurezza di chi lavora. Anche qui, ci troveranno pronti.

*L’autore: Francesco Laforgia è docente universitario, senatore Leu e fondatore di èViva


L’articolo prosegue su Left del 4-10 giugno 2021

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