«Se prendi a sassate la polizia e fai un video ti mando 100 dollari e se colpisci un bambino e fai vedere la ferita in un video ti mando 200 dollari». Messaggi come questo arrivavano da Miami sui cellulari delle persone che vivono a Cuba durante la protesta dell’11 luglio scorso. Cubani americani – i principali artefici delle pressioni su Washington affinché mantenga il criminale embargo nei confronti dell’Avana – esortavano parenti e conoscenti rimasti sull’isola a scendere in strada e unirsi alle proteste, in cambio di denaro, per poter diffondere i video sui social e alimentare la campagna mediatica anti-cubana che a colpi di fake news, come vedremo, era stata pianificata con qualche giorno d’anticipo.
Ciò non toglie che la protesta c’è stata, che migliaia di cittadini cubani sono scesi in strada in diverse città del Paese e che un evento simile non accadeva dal 1994 quando l’isola, in seguito alla caduta dell’Unione sovietica e fiaccata da oltre 30 anni di embargo Usa, era attanagliata da una gravissima crisi economica. Perché protestano? Cosa sta accadendo a Cuba? Se, per dirla con Gianni Minà, vogliamo davvero aiutare i cubani «per aiutarci a restare umani» è più che mai doveroso ricostruire laicamente e correttamente il contesto in cui la protesta è nata e si è sviluppata, rimettendo a posto i tasselli scombinati da vagonate di false notizie che pure i media mainstream italiani hanno contribuito a diffondere impunemente, come ci ricorda anche Leonardo Filippi nelle pagine seguenti. Andiamo per ordine.
Per un’economia già in difficoltà e basata sul turismo come quella cubana, la riapertura delle frontiere nel maggio scorso è…
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