Si stima che gli Usa in 20 anni di guerra contro l’Afghanistan abbiano speso più di 2mila miliardi di dollari. Una cifra monstre. E oggi si sprecano gli articoli e gli editoriali in cui si parla dello “spreco” di risorse. Di soldi “buttati”. Non è andata proprio così

Quando si insediò il Governo Draghi, all’ex ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, un giornalista chiese se per l’Italia l’arrivo dell’ex banchiere della Banca centrale europea a Palazzo Chigi fosse positivo.
«Non esiste una sola Italia», rispose Varoufakis. Aggiungendo che se per finanzieri, rentiers, imprese di medie e grandi dimensioni sarebbe stato “positivo”, non lo stesso si sarebbe potuto dire per «la maggioranza della popolazione, che continuerà a soffrire le conseguenze di una delle peggiori crisi economiche di sempre».
Varoufakis ricordava così la finzione della “nazione” come corpo unico; al contrario, è attraversato da diverse faglie e fratture.
Non esistono politiche “win-win”: ciò che avvantaggia una parte avviene a danno di un’altra.
C’è chi vince e c’è chi perde.

Come si può tradurre questo discorso quando volgiamo lo sguardo all’Afghanistan?
Ecco, quando parliamo di fallimento o disastro della ventennale guerra di Usa e Nato dovremmo chiederci: “Fallimento/disastro per chi?”.
Certo per i popoli del mondo, che piangono più di 240mila morti in terra afghana, distruzioni immani, bombe sui matrimoni, attentati, soprusi, violenze, oppressione e una “neverending” povertà.
C’è però una minoranza per la quale, invece, la guerra è stata tutt’altro: un vero e proprio successo.

Boeing, Raytheon, Lockheed Martin, Northrop Grumman e General Dynamics sono le 5 principali aziende della difesa (leggasi: di guerra).
Se avessimo avuto 10mila dollari da investire il 18 settembre 2001, il giorno in cui il presidente George Bush Jr. diede l’autorizzazione all’uso della forza in risposta agli attentati dell’11 settembre, e li avessimo ripartiti equamente per acquistare azioni di queste 5 imprese (2mila su ognuna di esse), oggi avremmo 100mila dollari.
Un guadagno enorme.

E sapete qual è la fonte della maggior parte dei ricavi per queste aziende (eccezion fatta per Boeing)? Il governo statunitense.
Per di più nei consigli di amministrazione di tali imprese siedono ex ufficiali militari di altissimo rango, il che evidenzia una volta di più il problema delle “porte girevoli”, vale a dire del movimento di persone che si spostano dall’apparato politico, militare, legislativo a quello di imprese, gruppi industriali, ecc..
Di seguito i nomi di ex militari oggi seduti nei board di queste 5 grandi aziende:
• Boeing: Edmund P. Giambastiani Jr. (former vice chair, Joint Chiefs of Staff), Stayce D. Harris (former inspector general, Air Force), John M. Richardson (former navy chief of Naval Operations);
• Raytheon: Ellen Pawlikowski (retired Air Force general), James Winnefeld Jr. (retired Navy admiral), Robert Work (former deputy secretary of defense)
• Lockheed  Martin: Bruce Carlson (retired Air Force general), Joseph Dunford Jr. (retired Marine Corps general)
• General Dynamics: Rudy deLeon (former deputy secretary of defense), Cecil Haney (retired Navy admiral), James Mattis (former secretary of defense and former Marine Corps general), Peter Wall (retired British general)
• Northrop Grumman: Gary Roughead (retired Navy admiral), Mark Welsh III (retired Air Force general)

Due trilioni di dollari “buttati”?
Si stima che gli Usa in 20 anni di guerra contro l’Afghanistan abbiano speso più di 2.000 miliardi di dollari. Una cifra monstre. E oggi si sprecano gli articoli e gli editoriali in cui si parla dello “spreco” di risorse. Di soldi “buttati”.
Anche qui: dipende.
Qualcuno ha calcolato che se questa immensa mole di denaro fosse stata distribuita cash ai cittadini, ogni afghana/o avrebbe ricevuto 100mila, una cifra che avrebbe potuto contribuire a sradicare la fame dall’Afghanistan…
Ma così non è stato.
Laleh Khalili, professoressa di International Politics alla Queen Mary University di Londra, stima che l’80-90% del denaro speso da Washington sia in realtà tornato negli USA sotto forma di contratti con compagnie militari private (tra cui le 5 prima citate) e con altre grandi aziende.
Ad esempio, l’addestramento delle forze armate e di quelle di polizia è stato affidato a compagnie private, principalmente statunitensi; così come la ricostruzione è stata affidata ad aziende private e a Ong – anche qui: principalmente statunitensi.
E i 1.500 miliardi di dollari rubricati alla voce “spese di combattimento” sono andati al 60% ad addestramento, acquisto di materiali bellici, carburanti, armi e per il 4% per il trasporto di truppe e materiali.
Washington paga, aziende private incassano.

I 2 trilioni di dollari, dunque, non sono stati “sprecati”. Almeno non nell’ottica del complesso militare-industriale statunitense: sono piuttosto serviti a foraggiarlo.
Abbiamo occhiali diversi con cui guardiamo alla guerra: ciò che per noi è morte e distruzione, per loro è occasione di profitti immani.
Per questo essere contro la guerra in astratto non basta. Bisogna combattere questo complesso militare-industriale, tanto negli Usa quanto nei nostri Paesi. Perché qui la storia non è diversa.

P.S.: Molti dei dati necessari a un’analisi approfondita sui fondi spesi sono ancora secretati dal Pentagono. Ancora una volta dovremmo ringraziare una persona come Julian Assange per averci offerto elementi di verità. Invece, lo lasciamo marcire in una cella.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce nazionale di Potere al popolo

 

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