Su lavoro, diritti e pensioni il governo Draghi si fa beffe delle organizzazioni sindacali, dei lavoratori, dei precari e dei disoccupati. Nel nostro Paese i salari sono i più bassi e l’orario di lavoro il più lungo, la disoccupazione e la precarietà di vita e di lavoro fuori controllo, un numero spaventoso di infortuni mortali e di malattie professionali, il lavoro nero e schiavizzato senza contrasto, i diritti sociali e civili arretrano. Il nostro territorio è saccheggiato dalle continue speculazioni, l’inquinamento è a livello di guardia, l’utilizzo delle energie da fonti fossili non si ridurrà in tempi utili. La transizione ecologica e ambientale non trova concretezza. Il governo dei “migliori” ha già convenuto con l’Europa e i partiti la quantità e la destinazione delle risorse – circa trenta miliardi di euro – di una legge di bilancio che, a differenza di altre, deve essere equa e distributiva. Non lo sarà, vista la continuità con il passato e la scarsezza di risorse assegnate per il mondo del lavoro. I piccoli aggiustamenti saranno più di facciata che di sostanza e non cambieranno la natura e l’indirizzo politico e sociale della legge di bilancio: uno stantio gioco delle parti ad uso del teatrino della politica rilanciato da giornalisti e mezzi di comunicazione compiacenti. Non per questo sarà credibile per la pancia del paese. Dall’incontro del 16 novembre tra sindacato e governo, dove Cgil, Cisl e Uil hanno riproposto le richieste contenute nelle nostre piattaforme, è uscito molto fumo e poca sostanza: solo l’impegno futuro ad aprire nuovi tavoli di confronto mentre la legge di bilancio si avvia ormai verso l’approvazione, con il possibile ennesimo ricorso al voto di fiducia, dentro un patto politico nell’esecutivo in un Parlamento svuotato di ruolo. Dopo mesi di richieste al governo di un reale confronto di merito sulla legge di bilancio e sulle emergenze del Paese, il presidente del Consiglio fa l’illusionista, rimanda ancora, come se i tempi fossero illimitati e le risposte non urgenti. Si “impegna” pure – e risuona il fantozziano “ma come è buono lei” – a un secondo tavolo di riforma della legge Monti- Fornero da collocare nei primi giorni di dicembre. Coerenza e correttezza vorrebbero che ciò avvenisse senza la cancellazione della pur imperfetta quota 100 sulle pensioni – perché fatta solo di 62 anni di età e 38 di contributi -, come chiedono Confindustria e i mercati. Una risibile disponibilità al confronto, peraltro frutto del timido avvio della mobilitazione sindacale. Rinvii, promesse prive di concretezza e la richiesta esplicita di Draghi di non proclamare lo sciopero in cambio di una disponibilità al futuro confronto: un insopportabile ed inaccettabile paternalismo autoritario. Nessuna disponibilità ad aumentare l’insulto dei 600 milioni di euro stanziati nella finanziaria sul capitolo pensioni.
Poco o nulla sulla sanità pubblica, sulla pandemia e la scarsità di personale che sta mettendo ancora in crisi il sistema di prevenzione e di cura, sulla scuola e l’istruzione pubblica e sui rinnovi dei contratti, nulla sugli ammortizzatori sociali se non una certa propensione verso le proposte padronali di scaricarne i costi sul sistema fiscale. Degli otto miliardi a disposizione per la riduzione delle tasse sicuramente una parte consistente non andrà verso le buste paga dei lavoratori ma ancora una volta verso le imprese e le varie corporazioni.
Sul fisco una proposta di controriforma regressiva che riduce il numero delle aliquote e niente da a lavoratori e pensionati poveri, in spregio alla progressività sancita dalla nostra Carta costituzionale, con mancato gettito che si avvertirà a partire dal prossimo anno, premessa per un ulteriore assottigliamento del perimetro pubblico, l’opposto del bisogno di stato e di protezione sociale che ci consegna la pandemia niente affatto domata.
Su Tim poi, misurando la distanza tra la retorica della digitalizzazione e dei diritti digitali garantiti e democratici, si continuano a commettere gli stessi errori del passato – che tante sventure hanno portato al Paese: ci riferiamo all’offerta di acquisto della rete di telecomunicazioni italiana da parte di un fondo d’investimento speculativo americano. Ma l’Italia da questo punto di vista ha già dato abbondantemente!
In dieci anni, dal ’92 ai primi anni 2000, abbiamo svenduto la parte migliore del nostro patrimonio industriale. E l’emorragia non si è più fermata.La prima reazione alla proposta di acquisto dell’intera Tim da parte del fondo Kkr è stata, invece, pericolosamente timida e reticente. Si è apprezzato l’interesse manifestato da un grande investitore internazionale, si è fatto appello alle valutazioni del mercato, si è nominata l’ennesima task force di superesperti e si è parlato, sottovoce, di possibili “paletti” che il governo potrebbe mettere per “rendere compatibile l’ingresso di un nuovo socio straniero con il rapido completamento della connessione con banda ultralarga”.
Il tempo delle illusioni e dei rinvii dovrebbe essere finito per tutti
Dovrebbe essere finita, almeno per il sindacato, la politica dei due tempi. Senza cambiamento del paradigma e della visione ci sono solo i “bla bla bla”. La prospettiva nella quale si colloca la legge di bilancio non ha come obiettivo il cambiamento ma la conservazione, la continuità neoliberista, la “modernizzazione” dell’attuale modello di sviluppo e di produzione, il mantenimento degli attuali rapporti di potere e di forza tra le classi, senza una vera redistribuzione della ricchezza, al massimo l’elemosina o l’utilizzo del terzo settore, sempre più alternativo al pubblico. Lo dice espressamente il governo: irrilevante crescita del Pil, aumento dei profitti privati, lavoro precario e sottopagato nel terziario debole, risorse pubbliche e legge come quella sulla concorrenza per aprire al mercato ed ai profitto ogni ambito ancora non travolto nella stagione degli anni Novanta. Ordoliberismo puro, con lo Stato che disbosca a favore del mercato e del privato. Se non contrasteremo questa continuità con il passato, se non ritorneremo nei luoghi di lavoro con più assiduità e continuità, se non costruiremo e metteremo in campo con la mobilitazione e lo sciopero generale la forza, la rappresentanza e il valore del mondo del lavoro, rischiamo di uscire dalla pandemia e dalla crisi economica e sociale più diseguali e atomizzati di prima. Siamo e rimaniamo sindacalisti non rassegnati “al non ci sono alternative”, assumendoci la responsabilità delle scelte soggettive. La Cgil deve utilizzare al meglio il consenso e la fiducia dell’insieme del mondo del lavoro: le battaglie perse per sempre sono quelle che non si combattono. Per il nostro futuro e per quello delle nuove generazioni rompiamo la pax sociale draghiana.
*Gli autori: Giacinto Botti e Maurizio Brotini fanno parte del direttivo nazionale Cgil
Nella foto: manifestazione #CambiaManovra di Cgil, Cisl e Uil, Roma, 27 novembre 2021
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