Un ambito rilevantissimo e decisivo per il nostro futuro, sfugge oggi all’attenzione e agli sforzi degli Stati per contenere il riscaldamento climatico e arginare gli squilibri ambientali. È quanto appare evidente, ad esempio, nel Piano nazionale di ripresa e resilienza all’interno del più generale progetto Next generation Ue, così come nelle posizioni di altri governi nazionali, e in gran parte del dibattito ambientalista, soprattutto italiano. Quest’ambito è la divisione del mondo in Stati separati e contrapposti, se non addirittura, come accade in non poche regioni del pianeta, in reciproca guerra. L’organizzazione giuridica e istituzionale dell’umanità, frantumata in una moltitudine di entità giuridico-territoriali sovrane, divise da confini, delimitazioni, leggi e costituzioni diverse, appare drammaticamente vecchia, più vicina all’assetto europeo uscito dalla pace di Westfalia, nel 1648, che agli equilibri planetari e ai bisogni del nostro tempo. Vale a dire, una fase storica in cui i processi di globalizzazione hanno unificato il pianeta, non solo sul piano economico, finanziario, commerciale e delle comunicazioni, ma anche su quello delle malattie, della circolazione dei virus e degli sconvolgimenti ambientali, degli effetti del riscaldamento del clima. Oggi, per dire, se nel bacino del Mediterraneo cominciano a diventare frequenti i cicloni, accade al contempo che in Alaska e in Siberia incendi devastatori durino settimane; se in Africa d’estate la temperatura all’ombra supera per mesi i 50 gradi, in Antartide piattaforme di ghiaccio di migliaia di km2 si staccano e finiscono in mare. Un mare, come viene ricordato nelle proiezioni di alcuni scienziati, destinato in futuro a ospitare più rifiuti di plastica che pesci, se la tendenza corrente delle società consumistiche non subirà una decisa inversione.
Ma il quadro delle relazioni internazionali non è solo contrassegnato dalle delimitazioni territoriali e statali. Non siamo alla fine di una lunga guerra, e all’inizio di un periodo di pace, come nel 1648. A parte le due guerre mondiali, il pianeta Terra non era stato percorso da così tanti conflitti tra gli Stati, e all’interno degli stessi Stati, come da 20 anni a questa parte. Lo sviluppo capitalistico accompagnato e sorretto dalle ideologie neoliberistiche ha unificato la Terra sotto il profilo economico e finanziario, ma lo ha frantumato sul piano politico e istituzionale.
Come ha sottolineato un economista non catechizzato dalla vulgata neoliberista, Ernesto Longobardi, «la globalizzazione sfibra gli Stati nazionali, perché sottrae il mercato al loro controllo, senza che questo si traduca in alcun rafforzamento delle entità e delle forme di coordinamento sovranazionali, come ci si sarebbe potuto attendere. Ché anzi, essa segna il definitivo compimento di un processo di progressiva erosione del sistema del multilateralismo uscito dalla seconda guerra mondiale» (“Di fronte ai vincitori globali: l’esigenza di una nuova politica” nel libro a cura di F. Zappacosta Il senso umano delle cose. Ripensare la società oltre la pandemia, L’asino d’oro). E la progressiva marginalizzazione del ruolo dell’Onu, ricorda a ragione Longobardi, costituisce l’aspetto più rilevante di tale processo, il cui primo agente sono gli Usa e le loro politiche belliche e di espansione planetaria.
Su questo scenario drammatico, che mostra la crisi ambientale diventare di anno in anno sempre più minacciosa e imprevedibile, la pandemia mietere milioni di vittime, e gli Stati, con supremo cinismo, raddoppiare le spese in armamenti, interviene con ardimento intellettuale e autorevolezza Luigi Ferrajoli col suo Per una costituzione della Terra. L’umanità al bivio, (Feltrinelli). Si tratta di un testo che non si limita alla semplice perorazione di una necessità, all’invocazione di un intervento da parte di qualche autorità superiore, ma propone, già scandita in 100 articoli, una Carta per la terra. Può sembrare un gesto velleitario, un azzardo utopico e invece, se si vuol salvare il genere umano dalla china autodistruttiva in cui sta precipitando, non c’è atto più saggio e realistico che prefigurare un nuovo ordine mondiale con al centro la natura e il mondo vivente. E val la pena dare al lettore il senso vivo e solenne di questo patto universale elaborato da Ferrajoli, riportandone alcune righe d’avvio: «Noi popoli della Terra, che nel corso delle ultime generazioni abbiamo accumulato armi micidiali in grado di distruggere più volte l’umanità, abbiamo devastato l’ambiente naturale e messo in pericolo, con le nostre attività industriali la stabilità del pianeta; consapevoli della catastrofe ecologica che incombe sulla Terra, del nesso che lega la sopravvivenza dell’umanità e la salvaguardia dell’ambiente e del pericolo che, per la prima volta nella storia, il genere umano, a causa delle sue aggressioni alla natura, possa avviarsi all’estinzione; decisi a salvare la Terra e le generazioni future…».
Ecco, questa è la reale portata della sfida, e senza una concertazione globale dei poteri mondiali, senza un accordo pacifico per un diverso modo di utilizzare le risorse della Terra, senza porre fine alla competizione intercapitalistica, il nostro futuro precipiterà in una catena di catastrofi imprevedibili. Non per nulla, l’articolo 1 della Costituzione della Terra pone al primo posto della tutela universale non solo gli uomini, ma tutto il mondo vivente e conseguentemente la vita delle generazioni a venire: «La Terra è un pianeta vivente. Essa appartiene come casa comune, a tutti gli esseri viventi: agli esseri umani, agli animali e alle piante. Appartiene anche alle generazioni future, alle quali la nostra generazione ha il dovere di garantire, con la continuazione della storia, che esse vengano al mondo e possano sopravvivere».
Ferrajoli motiva l’elaborazione della sua Costituzione non solo sulla base di una necessità drammaticamente evidente. Senza una forma di concertazione globale gli Stati, oggi divisi e in gara, quando non in guerra, costretti a fare i conti con risorse sempre più scarse e danni ambientali crescenti, imboccheranno la strada di conflitti distruttivi. Ma un nuovo assetto costituzionale della Terra si rende necessario intanto perché la conquista della civiltà giuridica di una carta dei diritti delle persone appartiene a una parte limitata dell’umanità: «Le persone lasciate affogare nel Mediterraneo – ricorda Ferrajoli – nel tentativo di raggiungere i nostri paradisi democratici, l’apartheid mondiale nella quale vivono e muoiono un miliardo di esseri umani e le repressioni violente delle libertà fondamentali in gran parte del pianeta ci dicono che fuori dai confini dell’Occidente i diritti fondamentali appaiono privilegi e le loro proclamazioni senza il loro carattere indivisibile, decadono a vuota retorica».
E tuttavia, anche le nostre Costituzioni appaiono oggi drammaticamente inadeguate non solo per la loro limitatezza geografica, per la loro angustia nazionale, ma anche a causa del loro originario fondamento dottrinale. In un capitolo teoricamente dirompente del libro, “Per un costituzionalismo dei mercati”, che riprende sue precedenti elaborazioni, Ferrajoli mette in luce un peccato originale della nostra tradizione giuridica: l’assenza di un costituzionalismo di diritto privato accanto a quello di diritto pubblico. È pressoché ignoto, infatti, e assente dal dibattito teorico il fatto che i vincoli frapposti a garanzia dei diritti fondamentali riguardano i poteri pubblici, non i poteri privati. «L’espressione “Stato di diritto”, è emblematica: è solo lo “Stato”, e non anche il mercato, il soggetto nei cui confronti si giustificano regole, divieti, obblighi e controlli volti a impedirne soprusi e abusi a danno dei diritti fondamentali delle persone». È questa una eredità del primo liberalismo, che ha innervato la cultura giuridica dell’Occidente, quella che ha identificato i poteri unicamente con le pubbliche potestà, con la sovranità statale, riducendo i poteri privati a nient’altro che libertà individuali da tutelare. Libertà individuali che hanno finito col comprendere anche la proprietà privata dei singoli, consacrandola come diritto assoluto e intoccabile. Il capitalismo ha dunque trovato in questo deficit dottrinario originario un fondamento giuridico di particolare solidità.
Sicché oggi, nel momento in cui i mercati sovrastano e sabotano in piena libertà i poteri degli Stati, aggirano e svuotano le loro costituzioni, e singoli gruppi economico-finanziari decidono la sorte di milioni di persone, tale architettura giuridica emerge in tutta la sua paradossale insostenibilità. È anche grazie ad essa se le società di tutto il mondo sono lacerate da disuguaglianze abissali, da povertà diffuse e concentrazioni abnormi di ricchezze, generatrici di conflitti, di migrazioni disperate, di disordine politico crescente nello scenario mondiale.
Occorre dunque una svolta all’altezza dell’epoca nuova in cui siamo entrati. Il pensiero democratico più avanzato e coraggioso cerca di fare la sua parte elaborando un alto costrutto giuridico che attende l’azione politica di massa perché esso diventi materia di concertazione su scala internazionale.
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