La Corte penale internazionale ha aperto una indagine per presunti crimini internazionali commessi in Ucraina. È questa la risposta che l’organo giurisdizionale che ha sede all’Aja, sta dando per individuare e poi perseguire chi è responsabile (persone fisiche, non Stati) di potenziali crimini internazionali che appartengono a tre tipologie: crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Mentre la guerra prosegue con la sua tragica scia di vittime e distruzioni e la diplomazia internazionale stenta a far raggiungere il cessate il fuoco e l’apertura di trattative reali, il diritto fa sentire la sua voce contro la violazione dei diritti umani.
All’iniziativa della Corte penale internazionale (Cpi) va detto, per onor di cronaca, si è aggiunta anche la proposta, che tuttavia appare un po’ irrealistica, di creare con un trattato a parte un tribunale speciale solo per il crimine di aggressione contro l’Ucraina. I primi firmatari dell’appello sottoscritto da giuristi, politici e scrittori sono l’ex premier britannico Gordon Brown e Dapo Akande, docente di Diritto internazionale all’università di Oxford.
Intanto c’è un’altra notizia relativa alla repressione giudiziale dei crimini internazionali che riguarda direttamente il nostro Paese e che non è un caso che arrivi proprio nei giorni drammatici della guerra in Ucraina. L’Italia, ricordiamo, è tra i firmatari dello Statuto di Roma del 17 luglio 1998 ed entrato in vigore nel 2002, cioè il trattato istitutivo della Cpi. Nonostante la ratifica, l’ordinamento italiano non è stato ancora pienamente adeguato ai reati previsti dallo Statuto, né tantomeno è stata introdotta la cosiddetta giurisdizione universale per i crimini internazionali, come invece è accaduto in altri Paesi europei. Un vulnus che negli anni ha permesso che tanti crimini internazionali non fossero perseguiti nel nostro Paese. Il 22 marzo, con l’intento di risolvere questo problema, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha istituito per decreto una Commissione per l’elaborazione di un progetto di Codice dei crimini internazionali, presieduta da Francesco Palazzo e Fausto Pocar. Entro fine maggio giuristi, studiosi della materia, funzionari dei ministeri della Giustizia e degli Affari esteri presenteranno una proposta. Questa iniziativa di Cartabia era stata caldeggiata all’inizio di marzo da un documento indirizzato a governo e Parlamento – sottoscritto da un centinaio di giuristi di 50 atenei italiani – il cui primo firmatario è Andrea de Guttry, professore ordinario di Diritto internazionale della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa.
Facciamo il punto sulla situazione attuale del diritto relativo ai crimini internazionali, sia alla luce dell’avvio delle indagini della Cpi in Ucraina che della Commissione istituita da Cartabia, con l’esperto in diritti umani e politiche globali Alessandro Mario Amoroso, ricercatore della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, che ha partecipato al gruppo di lavoro sul documento. Partiamo dalla novità della Commissione incaricata dalla ministra Cartabia. «Nell’ordinamento italiano al momento non c’è un testo unico che permette di punire i crimini internazionali e questa era una delle nostre richieste. Oltre a introdurre le fattispecie penali, cioè le diverse tipologie di crimini internazionali, così come indicate dallo Statuto di Roma, noi auspichiamo che nell’ambito del nuovo progetto di Codice sia riconosciuta anche la giurisdizione universale su quei crimini, cioè la competenza del giudice italiano a perseguirli in qualsiasi circostanza», afferma Amoroso. C’è il rischio che l’attuazione dello Statuto di Roma possa essere carente per alcuni aspetti? «Non basta dare solamente la definizione del crimine nell’ordinamento, se si fa solo questo – continua il ricercatore – resterebbero in vigore i criteri attuali per esercitare la giurisdizione, e quello principale è il criterio territoriale, cioè che il reato sia commesso sul territorio italiano. La giurisdizione universale invece va molto oltre: è la possibilità di perseguire un crimine ovunque sia stato commesso e da chiunque sia stato commesso».
È indicativo, continua Amoroso, il caso Matammud: il cittadino somalo imputato di omicidio, sequestro di persona e violenze sessuali ai danni di suoi connazionali in un campo di raccolta migranti in Libia che è stato condannato a Milano. «È uno dei rarissimi casi dell’esercizio della giurisdizione universale in Italia», commenta il ricercatore del Sant’Anna di Pisa. Altri Paesi europei hanno attuato lo Statuto di Roma. Come la Germania, dove esiste una buona normativa sui crimini internazionali e questo ha fatto sì che, a gennaio e a febbraio 2022 la corte di Coblenza abbia emanato due sentenze di condanna per crimini contro l’umanità nei confronti di due membri dell’intelligence siriana. Anche in questo caso, noto come “Caesar files”, si trattava di reati compiuti in un Paese straniero da cittadini stranieri.
In passato due corti internazionali istituite ad hoc dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite hanno permesso di assicurare alla giustizia i responsabili di crimini internazionali commessi durante la guerra in ex Jugoslavia e in Ruanda. Mentre per quelli perpetrati in Siria, nonostante gli accorati appelli della ex procuratrice del Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia Carla Del Ponte, non è accaduto nulla. La Russia, infatti, membro permanente con diritto di veto del Consiglio di sicurezza dell’Onu, votò contro la proposta di conferire alla Cpi la competenza sul conflitto in Siria.
La Corte penale internazionale fino a dove può arrivare? Ne fanno parte 123 Stati, ma con assenze che “pesano”. «È obiettivamente un sistema imperfetto – afferma Alessandro Mario Amoroso -. Non hanno ratificato lo Statuto di Roma le grandi potenze come Cina, Stati Uniti e Federazione russa. Tuttavia, pur essendo un sistema imperfetto, è un punto molto più avanzato rispetto a quello in cui ci trovavamo prima del 1998. Perché permette alla Cpi di perseguire tutti i crimini che sono stati commessi sul territorio di uno Stato che è parte della Corte, anche se commessi da un presunto colpevole che è cittadino di uno Stato che non è parte della Cpi». E qui veniamo al caso dell’Ucraina che, pur non aderendo alla Cpi, dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia e l’inizio del conflitto in Donbass «ha adottato una dichiarazione con la quale ha riconosciuto la giurisdizione della Cpi per tutti i potenziali crimini internazionali che hanno avuto luogo sul territorio ucraino da novembre 2013 in poi. Questo fa sì che oggi la Corte possa perseguire tutti i crimini internazionali anche se sono commessi da soldati russi, incluso ciò che sta avvenendo durante l’invasione». L’apertura delle indagini da parte del Procuratore capo della Cpi è stata resa possibile poi da quello che tecnicamente, spiega il ricercatore, si chiama refferal, cioè 39 Stati (tra cui l’Italia), su iniziativa della Lituania, circa un mese fa hanno chiesto alla Corte di interessarsi del caso Ucraina. «Al momento è abbastanza presto per comprendere cosa sta succedendo davvero sul campo, per avviare i processi bisogna innanzitutto raccogliere le prove», dice Amoroso.
Tra i crimini di guerra in un conflitto armato internazionale, come è questo in Ucraina, c’è anche l’attacco contro obiettivi civili. Il presidente Putin potrebbe quindi essere incriminato per crimini di guerra? «In teoria la norma che potrebbe permettere di incriminare il presidente russo sarebbe il crimine di aggressione, che è il crimine compiuto dalla leadership di uno Stato nell’iniziare una guerra di aggressione illegale, esattamente ciò che è avvenuto in Ucraina. Il problema è che sul crimine di aggressione lo Statuto della Cpi prevede un’attivazione condizionale, cioè prevede che gli Stati debbano ratificare un articolo aggiuntivo dello Statuto di Roma per accettare la giurisdizione della corte, che comunque nel caso del crimine di aggressione può esercitarsi solo nei confronti di cittadini di Stati parte della Cpi. Per il caso ucraino non sarà ancora possibile quindi perseguire il crimine di aggressione», spiega Amoroso. Ma c’è un però. «Se tutto questo è vero, è anche vero che nello Statuto di Roma si contempla anche la responsabilità dei superiori gerarchici che è una forma di responsabilità che permette di incriminare non gli esecutori materiali del crimine di guerra, del genocidio, del crimine contro l’umanità, ma coloro che esercitano l’autorità o il controllo sugli esecutori materiali. Superiori gerarchici non necessariamente inquadrati nella gerarchia militare». Quindi Putin potrebbe essere incriminato «nell’ottica della responsabilità dei superiori gerarchici».
Un’altra domanda, immaginando un Putin accusato di crimini di guerra che tra dieci anni si trovi a passare dall’Italia. Sarebbe arrestato? «Se noi dovessimo basarci sul nostro attuale diritto interno, nel caso non ci sia una norma nel Codice dei crimini internazionali (che la commissione appena incaricata sta redigendo), la nostra giurisdizione universale sarebbe molto condizionata. Attualmente ci sono casi limitati e che dipendono da una richiesta del ministro della Giustizia in carica, talvolta sollecitato dal tribunale. Ma tale condizione rende la giurisdizione universale un’arma spuntata, perché la sottomette alla discrezionalità politica. E questo è uno dei motivi per cui in Italia ci sono pochissimi casi di applicazione della giurisdizione universale e quando se ne trovano, si tratta di casi che hanno una connessione con l’Italia, come quello del carceriere somalo, legato ai flussi migratori».
Poi c’è un altro elemento. La questione dell’immunità di un capo di Stato. Il ricercatore del Sant’Anna di Pisa accenna al caso del presidente del Sudan Omar El-Bashir che doveva rispondere di crimini di guerra, crimini internazionali e genocidio per la guerra condotta in Darfur. Finché era presidente del Sudan, nonostante la Cpi avesse emanato un mandato di arresto a tutti gli Stati parte della Cpi, tutti si sono rifiutati di arrestarlo. «Ci sono stati numerosissimi casi davanti alla Cpi in cui si valutava proprio la violazione degli obblighi di esecuzione del mandato di arresto e al momento la questione è molto discussa. Nei fatti, però, la prassi statale va nel senso di non arrestare un capo di Stato in carica, nemmeno in presenza di un mandato della Cpi. Questo è molto significativo», sottolinea con amarezza il giurista. Oggi Bashir è sottoposto a giudizio in Sudan per reati finanziari ma non si è arrivati ancora ad un processo per tutti i crimini di violazione di diritti umani commessi nel Darfur.
Anche se il diritto penale internazionale, come si vede, è complesso ed è fortemente condizionato dalla politica e dalle grandi potenze, soprattutto quando si tratta di “pesci grossi” da incriminare, come è successo in passato per l’ex segretario alla Difesa statunitense Donald Rumsfeld e il presidente George W. Bush per l’invasione dell’Iraq, si tratta di un sistema da salvaguardare e da potenziare. «La giurisdizione universale – conclude Alessandro Mario Amoroso – è fondamentale per due motivi. Primo, perché dà una risposta alla domanda di giustizia di tantissime vittime che altrimenti non riceverebbero mai ristoro per i crimini che hanno subìto, proprio perché in tanti Stati gli autori delle atrocità sono protetti da dittature o da regimi autoritari. Il secondo motivo è che la giurisdizione universale crea una situazione in cui non esista nessuna “isola felice” per i colpevoli di crimini internazionali, cioè mira a far sì che i colpevoli non possano recarsi in nessuna parte al mondo, perché ovunque rischierebbero di essere arrestati e processati».
Il diritto, insomma, può essere un’arma valida per contrastare la violazione dei diritti umani. E a questo proposito, non possiamo dimenticare un altro corollario di questa guerra, che colpisce i cittadini russi. Il 15 marzo il Cremlino ha deciso di ritirarsi dal Consiglio d’Europa, l’organizzazione internazionale fondata nel 1949 a difesa dei diritti umani, nel cui alveo era nata la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). La Russia era nel Consiglio d’Europa dal 1996. Tutti i casi pendenti alla Cedu adesso sono stati sospesi. E d’ora in poi nessun cittadino russo potrà appellarsi alla Corte di Strasburgo per chiedere giustizia.
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