Di pacifismo in Germania non si discute molto, neanche a sinistra. Il tema è affrontato solo in ambienti culturali alternativi all’informazione mainstream dove storici (come Jörg Himmelreich), giuristi e politologi (come Albrecht von Lucke), politici e giornalisti (come Jochen Rack), raccontano del “punto di svolta” che ha significato la reazione del governo tedesco all’invasione russa dell’Ucraina, a partire dall’aumento della spesa militare fino a 100 miliardi.
«In pochi storici secondi» si sarebbero sgretolati pilastri apparentemente inconfutabili dell’immagine politica della Germania e della sua storia a partire dal 1945. Tra questi il «Nie wieder Krieg» (“Mai più la guerra”), dogma del movimento pacifista tedesco, sembra esser stato sostituito con il monito dell’antica Roma: “Si vis pacem para bellum” (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”).
All’improvviso viene accusato di essere «utopico-idealista» un movimento pacifista che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone che hanno sfilato ogni anno a partire dal 1960 fino a oggi nelle cosiddette “marce pasquali” (Ostermärsche) e che di fatto ha segnato l’identità stessa della Germania. Nel tentativo di rielaborare l’orrore del nazismo e dell’Olocausto, il movimento univa la lotta per il disarmo a quella contro il nucleare, utilizzando come riferimenti culturali la filosofia di Karl Jaspers e il cristianesimo dei profeti dell’antico testamento (la cui soluzione semplificata starebbe nell’idea del “meglio subire un’ingiustizia piuttosto che procurarla”).
Dall’altra parte c’è chi, come Tilman Brück, ex direttore dell’Istituto tedesco di ricerca sulla pace (Sipri), pensa che invece l’utopia possa diventare realtà e intende per pacifismo lo sforzo per stabilire un ordine basato su regole e norme che consenta solo alle istituzioni legittime dello Stato di usare la violenza, per esempio, per prevenire la criminalità.
Il potere non regolamentato sarebbe infatti, sostiene Brück, la vera fonte della violenza distruttiva che può assumere molte forme: dalle parole offensive e alla discriminazione e alla violenza sessuale, dallo sfruttamento eccessivo della natura fino alle armi nucleari che distruggono tutto. Solo una cultura della limitazione del potere sarebbe in grado di prevenire la violenza e «proteggerci da noi stessi».
Penso, quindi, che possano essere individuate tre posizioni: una religiosa, da cui è difficile aspettarsi un cambiamento reale vista la premessa di accettazione totale di un destino predeterminato; una razionalista che promuovendo una “diplomazia armata”, di fatto cancella con un colpo di spugna un centinaio di anni e di sforzi pacifisti additandoli furbescamente come «utopistici» e «antistorici» e, infine, una posizione regolamentista-normativa che ancora prova a perseguire la strada della nonviolenza, ma non si è liberata del vecchio “homo homini lupus” che impone il bisogno di regole per controllare la violenza che sarebbe insita nella natura umana.
A queste tre posizioni vorrei contrapporre il pensiero assolutamente nuovo (non in senso temporale, ma per la sua originalità) dello psichiatra Massimo Fagioli, autore della Teoria della nascita e psichiatra dell’Analisi collettiva.
L’Analisi collettiva era una prassi di lavoro psicoterapeutico alla quale partecipavano grandi gruppi di persone (150-200) che per 4 volte alla settimana per 4 ore e ininterrottamente per 41 anni andavano a chiedere una psicoterapia come cura e formazione allo psichiatra che interpretava i sogni e insieme ai partecipanti faceva ricerca. Ognuna di queste persone era completamente libera di andare, non andare, tornare, non tornare più, dato che non c’era alcuna forma di contratto scritto o verbale e molto spesso Fagioli non conosceva neppure il nome dei partecipanti. A questa massima libertà dei pazienti Fagioli ha risposto essendo sempre presente per 41 anni senza saltare mai una seduta e senza mai tirarsi indietro di fronte a una richiesta di cura. L’Analisi collettiva, quindi, non ha conosciuto la delusione. Mai è stata tradita dallo psichiatra la proposta di rapporto codificata fin dal primo fondamentale libro Istinto di morte e conoscenza (L’Asino d’oro ed.) come “frustrazione-interesse”: frustrazione delle dinamiche di rapporto parziali e violente per la pretesa, senza nessuna consolazione, di realizzare tutte le proprie possibilità umane (in particolare le possibilità di sviluppo della capacità di immaginare, che si crea in ogni essere umano al momento della nascita per la reazione della sostanza cerebrale alla luce).
Di fatto nella storia dell’Analisi collettiva, dove in 41 anni sono andate migliaia e migliaia di persone, non si sono mai verificati episodi di violenza fisica. Neanche uno. Fagioli stesso, parlando di sé, in più occasioni ha raccontato di non aver neppur mai dato uno schiaffo a qualcuno in vita sua e in Istinto di morte scrive di come i pazienti non riuscissero a comprendere il suo “non prendersela mai” per il suo sapere e la sua calma.
Una prassi nonviolenta dalle solide basi teoriche sintetizzabili nella frase espressa su Left nel 2008 e riproposta in copertina l’11 marzo scorso, «Una lotta senza armi, solo rivoluzione del pensiero e della parola», che ha alla base una nuova antropologia, assente negli altri movimenti pacifisti e che si basa sulla scoperta che l’essere umano è naturalmente “nonviolento”.
La violenza non è la verità dell’essere umano ma una sua distorsione. Il rapporto interumano è la verità dell’essere umano. Come fare a realizzare questo nel quotidiano? È necessario comporre due parole: resistenza e rifiuto. Due R bellissime e vitali che si oppongono alle due R mortifere di religione e ragione. Occorre «carpire il segreto delle donne di fronte all’oppressione violenta, il segreto di ribellarsi a dio che elimina ogni forma di vita» ha scritto Fagioli nella premessa alla quinta edizione de La marionetta e il burattino (L’Asino d’oro ed.). «Il segreto di una natura feconda di continuare a figliare nonostante l’oppressione violenta. Capire il gioco delle donne di lasciare l’oppressione violenta per ribellarsi all’istinto di morte che non opprime, elimina soltanto ogni forma di vita. Ribellarsi all’assenza, a ciò che non c’è, ai bambini non nati. Il segreto del ventre di donna. Che ha scoperto la ribellione all’assenza, la non rassegnazione alla morte».
La nuova antropologia di Fagioli consente di sviluppare una identità umana nuova, che non nega la donna, non nega il bambino, non nega il corpo e il suo contenuto di affetti, fantasia e vitalità, ma anzi trae forza proprio dal corpo, dalla fusione tra mente e corpo, superando la scissione che facendo rapporti parziali propone sempre una violenza.
Dall’altra parte c’è…
* L’autrice: Manuela Petrucci è psichiatra e psicoterapeuta
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