Dopo la chiusura delle urne, comincia in Svezia la valvaka: la veglia elettorale, che dirigenti e attivisti dei partiti trascorrono nei rispettivi quartieri generali, ballando (spesso in abito da sera), bevendo e cantando. La festa continua anche quando si delinea il confine tra vincitori e vinti. A quel punto, con qualche certezza in più in tasca, i leader dei partiti arrivano alla spicciolata negli studi della televisione pubblica (Svy) per un primo commento sui risultati.
In mezzo a tanti lustrini e calici e musica, il più sorridente di tutti, la sera di domenica 11 settembre, era Jimmy Åkesson: il quarantatreenne leader dei Democratici di Svezia – partito nato alla fine degli anni Ottanta nel milieu dei gruppi di estrema destra, con molti esponenti incriminati, anche recentemente, per crimini d’odio e atti violenti – ha portato a casa un risultato storico. Non solo il suo partito ha visto crescere la percentuale di consensi del 3,1% rispetto al 2018 (arrivando così al 20,6%), ma ha superato i Conservatori, che scendono al 19,1% (perdendo lo 0,7), privandoli così, dopo decenni, dello scettro di primo partito del centrodestra.
La ripartizione definitiva dei seggi sarà annunciata solo mercoledì, quando verranno conteggiati tutti i voti espressi via posta e quelli degli elettori all’estero; al momento il centrodestra (sempre meno centro e sempre più destra) è in vantaggio di un seggio sulla coalizione di forze che sostengono la prima ministra uscente, la socialdemocratica Magdalena Andersson.
A prescindere dall’esito finale (quale governo sarà formato), il vincitore certo delle elezioni è Jimmy Åkesson. Anche nel caso il centrodestra non riuscisse, per una differenza minima di voti, a formare il governo, i Democratici di Svezia diventeranno ancora più influenti (a livello nazionale, regionale e comunale: in Svezia si vota nello stesso giorno – la seconda domenica di settembre – per tutte e tre le elezioni), ottenendo più posti e di maggior prestigio. Per giunta, anche se il candidato primo ministro del centrodestra in queste elezioni è stato Ulf Kristersson, il leader dei Conservatori, qualche esponente dei Democratici di Svezia già chiede se non dovrebbe essere Åkesson, in quanto leader del partito che ha preso più voti nella coalizione, a rivendicare il ruolo.
Per i Conservatori si tratta di una nemesi. Kristersson si è fatto immortalare in molti manifesti elettorali con il suo cane: mentre lo porta a spasso, lo accarezza, gli parla e così via. In mezzo a tanta cinofilia però il messaggio era uno e uno solo: legge e ordine, ripetuto (così come l’altro slogan: meno tasse) quasi con il pilota automatico, come a voler coprire la mancanza di un programma, e di una visione. Ciò di cui era stato capace Fredrik Reinfeldt, leader conservatore vincitore di due elezioni, nel 2006 e nel 2010. A furia di copiare i Democratici di Svezia (che fanno parte del gruppo europeo dei Conservatori e riformisti, insieme a Fratelli d’Italia di Meloni e allo spagnolo Vox, ndr), Kristersson ha ottenuto di esserne surclassato. Gli altri tre partiti del centrodestra (i Cristianodemocratici e i Liberali) calano entrambi lievemente (-0,9%), attestandosi rispettivamente al 5,4% e al 4,6%, ma esultano, perché capiscono che il vento è girato.
Magdalena Andersson, la prima donna a ricoprire la carica di primo ministro in Svezia, colei che ha impresso una svolta storica alla politica estera e di sicurezza del Paese imboccando il percorso di adesione alla Nato – tema del tutto assente nella campagna elettorale – può, sì, vantare un buon risultato (30,5%, +2,2 rispetto al 2018), ma rischia di non riuscire a formare un governo perché tra i suoi alleati solo i Verdi hanno incrementato i consensi (5,1%, +0,7), smentendo sondaggi che fino a poco tempo fa li davano al di sotto della soglia di sbarramento, che nel sistema svedese, puramente proporzionale, è del 4%. Del resto, il clima non è stato certo protagonista, in queste elezioni.
Il Partito di Centro, che, pur di non appoggiare un governo di centrodestra sostenuto dai populisti, ha rotto già nel 2019 con l’alleanza borghese e ha appoggiato i governi socialdemocratici di minoranza – prima con Löfven e poi con Andersson – è sceso al 6,7% (quasi 2 punti in meno); la sua brillante leader, Annie Lööf, ha dichiarato domenica sera che i voti in uscita sono verosimilmente andati ai Socialdemocratici, sia per l’autorevolezza dimostrata dalla prima donna premier sia perché il partito di Andersson ha assunto posizioni decisamente di centro.
Il Partito della sinistra non esce bene, da queste elezioni. Su assesta sul 6,7% delle preferenze, con un calo dell’1,3% rispetto alle scorse elezioni. Nooshi Dadgostar, leader dal 2020, ha chiarito da tempo che il suo obiettivo è un’alleanza di governo con i Socialdemocratici, non più un semplice appoggio esterno, che pure ha dato frutti importanti, come lo stop alla liberalizzazione dei canoni d’affitto negli alloggi di nuova costruzione e un significativo aumento delle pensioni più basse; risultati ottenuti sfruttando il fatto che i governi socialdemocratici di minoranza susseguitisi dal 2018 dipendevano dai voti del Partito della sinistra. Evidentemente però la determinazione a governare non solo con i Socialdemocratici (neoliberisti e atlantisti) ma anche con il Partito di centro, che si spende molto contro la xenofobia ma in materia di politica economica è assolutamente liberista, non ha convinto l’elettorato di riferimento.
Se sulla Nato il partito di Dadgostar ha tenuto una posizione ferma (pur non ritenendo opportuno uno scioglimento dell’Alleanza atlantica tout-court…), la strategia di rompere i ponti con il comunismo – senza la capacità di distinguere tra esso e lo stalinismo – e proclamarsi di fatto eredi della vera socialdemocrazia svedese è risultata troppo ambigua. Peraltro, né i Socialdemocratici né il Partito di centro hanno alcuna intenzione di accogliere nell’esecutivo il Partito della sinistra.
Il rebus del nuovo governo si scioglierà forse mercoledì o forse molto più avanti; in ogni caso rimarrà il velenoso lascito di una campagna elettorale molto americanizzata. Tra popcorn, musica tecno, falukorv (un particolare wurstel, specialità gastronomica nazionale, molto usato nella propaganda per ostentare la propria “svedesità”) e un’insistenza ossessiva sulla persona dei leader, anziché sui programmi, si è discusso quasi solo di criminalità delle gang giovanili (di immigrati, naturalmente…). Piaga che certamente esiste e alimenta un diffuso senso di insicurezza, ma va studiata e spiegata dati alla mano. Purtroppo è invece sfruttata per normalizzare la xenofobia. Le sparatorie tra gang nei sobborghi degradati sono il risultato delle politiche di quegli stessi partiti (i Socialdemocratici e i Conservatori) che, a livello nazionale come locale, hanno fatto del loro meglio per alimentare la segregazione residenziale (e la disoccupazione) degli immigrati, e ora, tallonati dai Democratici di Svezia, cercano di correre ai ripari, chiedendo pene più severe (anche per i minorenni), più polizia e via dicendo.
I Socialdemocratici ingentiliscono il programma con il richiamo al caro vecchio welfare (la marginalità sociale si contrasta non solo con la repressione, ma anche e innanzitutto con politiche sociali), ma con quale credibilità, dal momento che hanno contribuito attivamente al suo smantellamento e ora propongono, per i sobborghi degradati, criteri di assegnazione degli alloggi su base etnica? Questa ossessione per la criminalità (immigrata) ha finito per relegare in secondo piano i problemi che più stanno a cuore agli e alle svedesi: la sanità, innanzitutto, il welfare in generale e la lotta all’inflazione.
La svolta epocale di queste elezioni – il successo dei Democratici di Svezia, che diventano il secondo partito del Paese dopo essere stati banditi per anni dal salotto buono della politica – ci ricorda una volta di più che inseguire la destra radicale sul suo terreno (con proposte sugli immigrati semplicemente aberranti, formulate non solo, come è ovvio, da Åkesson ma anche dal centrodestra “perbene” e dai Socialdemocratici), lungi dal neutralizzare le spinte estremiste infetta l’intero panorama politico e culturale, perfino in un Paese che della solidarietà e dell’uguaglianza aveva fatto il suo vanto. Figuriamoci in paesi con tradizioni democratiche assai più fragili, come il nostro.