Il Paese chiamato alle elezioni politiche del 25 settembre è un Paese a pezzi, sfiancato, ove a questioni ormai croniche sono andati sommandosi, negli ultimi mesi, problemi che appaiono rendere fosche le prospettive per il futuro.
L’elenco è noto: dalle disuguaglianze alla povertà, dalla precarietà del lavoro alla sua insicurezza, dagli squilibri territoriali all’abbandono delle aree interne, dal consumo di suolo, la cementificazione e la depredazione del territorio alla transizione ecologica che non decolla. Un elenco che è lo stesso da tempo, le cui tendenze in atto hanno radici antiche sulle quali poco o nulla è stato fatto per invertirle. In un macabro gioco delle parti, la campagna elettorale ci ha mostrato un surreale rimpiattino tra quelli che pure sono stati al governo del Paese negli ultimi trent’anni, a fasi alterne.
Le disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza sono maledettamente persistenti, se non maggiori e l’Italia, in questo, primeggia in Europa. Se le politiche redistributive hanno contribuito ad attenuarle, rimangono sperequazioni terribili a monte: nei livelli salariali, nelle differenze tra redditi da lavoro e redditi da capitale e rendite, nella concentrazione della ricchezza mobiliare e immobiliare. La mobilità sociale è quasi assente: per fasce di reddito – i figli degli operai restano operai – come nei livelli di istruzione – i figli di chi non ha titolo di studio secondario o terziario resta senza titolo secondario o terziario – come nelle caratteristiche della famiglia di origine: chi nasce al Sud hai meno opportunità di chi nasce al Nord.
La povertà, nelle sue varie forme, oggi affligge un quarto della popolazione italiana (a anche in questo primeggiamo in Europa). E molti poveri hanno un lavoro che non li fa uscire da quella condizione. Il lavoro precario è aumentato, per non parlare del lavoro nero e sotto pagato, sempre presente e diffuso. Il lavoro è sempre meno tutelato e insicuro, come testimonia il triste bollettino quotidiano delle morti e degli incidenti sul lavoro, cui si aggiungono ora i morti tra i tirocinanti.
Gli squilibri territoriali sono andati aumentando, cronicizzandosi, non solo tra Nord e Sud ma anche nelle stesse regioni. Il destino economico di vaste aree appare segnato ormai, da decenni, e sembra che nulla si possa fare per invertire la rotta. Il Meridione continua ad essere caratterizzato da emigrazione, interna ed esterna, bassi livelli di spesa pubblica nei servizi, scarso dinamismo economico, bassa domanda di lavoro, industria e servizi che arrancano, a fronte di un’agricoltura su cui negli anni non si è investito. Inoltre, le aree interne del Paese – soprattutto quelle montane e collinari, un tempo più popolose – sono sempre più esposte, dove al calo demografico si aggiunge l’abbandono del territorio.
Il consumo di suolo procede indiscriminato e la cementificazione non vede sosta, con nuovi edifici residenziali e industriali, nuovi raccordi stradali, sottraendo terreno e contribuendo all’aumento dell’emissione di gas serra. I trasporti privati e pubblici sono ancora fondamentalmente su gomma e pochissimo viene fatto per la loro riconversione ecologica e per un più largo uso da parte del pubblico. La transizione ecologica, peraltro, è rimasta quasi lettera morta: l’uso di combustibili fossili viene ancora sussidiato, l’uso di energie rinnovabili non viene incentivato come dovrebbe, mentre si riparla, ora che la disponibilità di gas è stata messa in forse, di gassificatori e termovalorizzatori.
Ora, come si può vedere, questo elenco sommario evidenzia questioni le cui radici sono profonde ma nelle quali l’intervento di governo, le politiche, avrebbero potuto fare molto, se non moltissimo. Quella legislatura che era partita all’insegna del richiamo “anti-casta” ed egalitario (M5s) e del “sovranismo” securitario, all’insegna dell’«apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno», si è chiusa anticipatamente dopo aver prodotto il reddito di cittadinanza ma anche i decreti “sicurezza” – mai davvero superati – e poc’altro, se non il governo “dei migliori” che doveva mettere in pista il Pnrr e la “rinascita” dell’Italia.
Per il resto, infatti, non è stato fatto nulla. Non per aumentare la progressività delle imposte né per andare a tassare i grandi patrimoni e i redditi altissimi. Non per non lasciare che fosse il mercato che decidesse livelli stipendiali e remunerazioni, quando i salari sono fermi da anni, in termini reali. Non per invertire la rotta in tema di ambiente e cura del territorio, di disparità territoriali, di riconsiderazione delle aree interne.
A tutto ciò negli ultimi due anni e mezzo si è aggiunta la pandemia, arrivata come una mannaia a fare ancor più a pezzi il tessuto sociale. L’Italia ha avuto una mortalità altissima, più degli altri Paesi europei occidentali. Se il sistema sanitario nazionale frammentato nelle regioni ha contribuito, due sono stati i fattori che più hanno inciso, amplificando gli effetti della pandemia. Da un lato, una sanità pubblica cui negli anni sono state destinate sempre meno risorse, dove ha prevalso il potenziamento delle strutture ospedaliere a danno delle strutture di cura e trattamento diffuse sul territorio e della medicina di base. Dall’altro, una popolazione fragile soprattutto in alcune fasce, di età e condizione socio-economica: non a caso, in Italia l’85% dei decessi ha riguardato gli “over 70”, che sono quelli con altre patologie, la maggior parte delle quali dovute alle loro condizioni di vita. La pandemia, in questo, è stata una sindemia che ha avuto un impatto molto più forte sulle persone in condizioni disagiate. A questa “disuguaglianza della pandemia”, si è poi aggiunta una sua gestione inefficiente e spesso improvvisata su una materia – la salute individuale – nella quale molta più attenzione avrebbe dovuto essere riservata alla condizione delle persone.
Le elezioni di domenica prossima segneranno una svolta. Non tanto perché a vincere saranno le destre – e non è la prima volta – ma perché il partito maggioritario sarà quello di Giorgia Meloni. E sarà una svolta perché si andrà finalmente a un redde rationem per il Pd e la sinistra tutta. Dal 26 settembre, la storia della sinistra in Italia riparte.
Perché segna il fallimento del “progetto Pd”, un partito di centro-sinistra che ha solo legittimato l’impianto liberista delle politiche economiche e sociali volute da Bruxelles, a cominciare dall’austerity per finire con i tagli alla spesa sociale. Perché se c’è una ragione per cui aumenterà l’astensionismo e diminuirà il consenso del centro-sinistra, è perché le classi popolari sono state abbandonate. Il numero dei voti della destra non aumenteranno, ma caleranno, di molto, quelli dei 5 Stelle, ora ambiguamente riposizionati a sinistra, mentre ne guadagnerà l’altra sinistra. Con un governo di destra, il conflitto sociale riesploderà rancoroso e, se la sinistra saprà finalmente fare la sua parte, unitariamente, potrà ritrovarsi in un nuovo soggetto politico. Tutto dipenderà da come classi dirigenti vecchie e nuove sapranno leggere la società e i suoi bisogni, offrendo una prospettiva nuova.
L’autore: Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna. È candidato per Unione popolare in Emilia Romagna