Nell’ultimo film di Jafar Panahi, Gli orsi non esistono – girato non troppo tempo prima che il regista fosse arrestato per scontare i sei anni di carcere inflittigli nel 2010 – si racconta di tre gabbie in cui buona parte della società iraniana è imprigionata: trappole politiche, sociali e culturali dalle quali molti iraniani vorrebbero fuggire. Compresi i protagonisti di queste ultime proteste, giovani che percorrono ormai da quattro settimane le strade del Paese, nonostante una dura repressione.
Nel film – Premio della giuria all’ultima Mostra del cinema di Venezia – la prima gabbia è quella imposta dal sistema politico-giudiziario allo stesso Panahi, fino a pochi mesi fa relativamente libero di muoversi ma formalmente non di fare nuovi film – da lui tuttavia girati, da This is not a film a Taxi Teheran. Ma stavolta il regista ha diretto parte della sua troupe, impegnata in Turchia, da una povera casa affittata in un villaggio di confine. La seconda gabbia è la società tradizionale propria del villaggio che lo ospita, ossequiosa verso il ricco intellettuale che viene da Teheran ma ben determinata a perpetuare sé stessa: qui una giovane era stata promessa in sposa già al momento della nascita, e il suo tentativo di sfuggire a questo destino finirà in tragedia. La tradizione maschilista e patriarcale, incarnata da un giovane e iroso pretendente, non perdona. La terza gabbia sono gli invalicabili confini verso l’Europa, che una coppia di iraniani da tempo riparati in Turchia – lei con un passato di carcere e torture alle spalle – non riesce da anni a superare. I due hanno tentato per anni di rifarsi una vita in Europa, ma per farlo hanno bisogno di un passaporto falso, e il loro ultimo tentativo di procurarselo finisce in tragedia.
Realizzata molto tempo prima che la morte della giovane curda Masha Amini – seguita al suo arresto da parte della polizia morale – portasse migliaia di giovani a manifestare nelle strade di decine di città, l’opera di Panahi fissa un ritratto di quel Paese ora nuovamente sconvolto dalle proteste. Una Repubblica Islamica in cui ormai hanno prevalso il pugno forte contro il dissenso e un approccio più conservatore e repressivo contro chi infrange regole come l’obbligo del velo, verso il quale le donne sono sempre più insofferenti (a dimostrarlo un rapporto interno secondo il quale il 62% degli iraniani sono contrari).
L’arresto di registi scomodi (poco prima di Panahi erano finiti in carcere i suoi colleghi Mohammad Rasoulof and Mostafa al-Ahmad) è uno dei segnali del giro di vite che la Repubblica Islamica ha stretto in quest’ultimo anno contro i suoi cittadini. E lo ha fatto anche rafforzando la presenza invasiva della polizia morale, e tornando a rispondere alle proteste con metodi simili a quelli usati per reprimere le manifestazioni del 2019, innescate da ragioni economiche ma trasformatesi ben presto in contestazioni politiche contro i massimi vertici della Repubblica Islamica: lunghi blocchi dei servizi internet per nascondere la repressione, uso di armi da fuoco, arresti di massa e promesse di “condanne esemplari” per i rivoltosi.
Le ultime stime di Iran human rights avvicinano a 200 il numero delle vittime tra i manifestanti – 90 delle quali nella sola Zahedan, città della regione di confine del Sistan e Baluchistan, a seguito delle proteste per lo stupro subito da un’adolescente da parte di un funzionario di polizia. Ma a perdere la vita sono stati finora anche esponenti delle forze dell’ordine, 24 secondo gli ultimi dati forniti dalle autorità: dati che rivelano l’azione di elementi violenti e probabilmente di provocatori di entrambe le parti, a inquinare il carattere pacifico del movimento.
È sbagliato tuttavia, a giudizio di chi scrive, ricondurre tutto questo solo alle dinamiche interne della Repubblica Islamica, come se le tensioni e le tragedie di questi ultimi anni fossero nate per partenogenesi dalla natura intrinsecamente repressiva del sistema e dei suoi apparati.
Sia chiaro, la natura del sistema lo è, repressiva, per quell’elemento teocratico (incarnato nella figura della Guida come massima autorità politico-religiosa) che limita i poteri decisionali del Parlamento e del Presidente eletti a suffragio universale. Per alcuni per noi inaccettabili principi della legge islamica, che detta intere parti dei codici civile e penale. E sempre più, nel corso di questi decenni, per la necessità degli apparati di arroccarsi su se stessi nonostante siano cresciuti il dissenso e i movimenti di protesta, specialmente tra le giovani generazioni.
Detto questo, non possiamo non chiederci se l’Iran di oggi non sarebbe stato diverso qualora gli Stati Uniti di Donald Trump non avessero fatto abortire sul nascere nel 2018, con il ritiro unilaterale di Washington dall’accordo sul nucleare del 2015, ogni volontà di apertura della Repubblica Islamica verso l’Occidente. Un’apertura in primo luogo economica, come provato da quei grandi progetti di investimento firmati anche dall’Italia e poi abbandonati per l’incapacità dell’Europa di tener fede agli accordi presi con Teheran in seguito alle sanzioni unilaterali di Washington; ma anche politica e culturale, come dimostravano le promesse e i progetti di cooperazione allora annunciati da entrambe le parti.
Non possiamo insomma non chiederci se le strade dell’Iran sarebbero ora ugualmente percorse da giovani esasperati e sparse del loro sangue, se alle loro giuste istanze si fosse in questi anni risposto con prospettive di lavoro innanzitutto, e poi con quelle aperture anche sul piano delle libertà e dei diritti che molti auspicavano. O pensiamo forse che, se in questi ultimi cinque anni imprenditori e operatori europei fossero andati avanti e indietro con Teheran (riempiendo quei voli diretti che ora non ci sono più), assisteremmo oggi alle stesse proteste e alla stessa repressione? Che la polizia morale sarebbe stata ugualmente rigida, in strade piene di donne straniere che lavoravano nel Paese? Che ogni branca del potere sarebbe stata occupata dagli ultraconservatori e dai nazionalisti autarchici e bellicisti di oggi, se la parte dialogante del sistema non fosse stata sconfitta proprio per aver perso la loro scommessa, dopo aver puntato tutte le loro carte (forti del vasto consenso elettorale del presidente Hassan Rouhani) sull’accordo sul nucleare?
Se è giusto dunque condannare la repressione dei manifestanti di oggi, non vanno tuttavia dimenticati quelli che la notte del 14 luglio 2015 – giorno dell’accordo sul nucleare a Vienna – erano scesi in strada esultando per quell’intensa, e inneggiando anche all’ex presidente riformista Mohammad Khatami e al candidato presidente nel 2009 Mir Hossein Moussavi – tuttora agli arresti domiciliari insieme all’altro riformatore Mehdi Kharroubi – come simboli di un possibile cambiamento interno.
Non inganniamoci, la Repubblica Islamica gode ancora di un certo consenso in alcuni strati della popolazione e nella casta che ne trae benefici sociali e profitti economici, nonostante le sanzioni se non grazie ad esse. Ma se ha preso un’irrimediabile china repressiva che la allontana sempre di più dai suoi giovani e dal suo popolo, se la corruzione interna impoverisce le classi medie quanto le sanzioni Usa, se i suoi cervelli migliori vanno a cercare all’estero un futuro migliore, se gli iraniani che restano in patria sono condannati allo stesso isolamento internazionale del loro governo, se l’esasperazione non trova altro sbocco che la protesta al costo di tante giovani vite che muoiono o finiscono in carcere, allora è nostro dovere chiederci se anche l’Occidente non abbia avuto una responsabilità in questa deriva. Non per assolvere la Repubblica Islamica dalle sue colpe, ma per smetterla di pensare che per essere solidali con le donne iraniani basti tagliarsi una ciocca di capelli, e cercare invece una strada politica e diplomatica efficace per sostenere davvero le loro istanze.