Luigi Ghirri ha proposto un nuovo modo di guardare il mondo e di fare fotografia. A trent’anni dalla sua scomparsa, il regista Matteo Parisini gli dedica il lungometraggio Infinito, con cui ci conduce, guidati dalla voce di Stefano Accorsi, alla scoperta di Ghirri come artista e come uomo.
Alla Festa del Cinema di Roma, dove è stato presentato il film, ne abbiamo parlato con il regista Matteo Parisini (nella foto), e le figlie, Ilaria ed Adele Ghirri.
Questo film attraversa i confini tra fotografia, poesia e filosofia. In particolare, mi ha colpito l’emergere del profilo di Luigi Ghirri non solo come fotografo e come uomo, ma proprio come pensatore. Mi ha colpito che, per spiegare la sua ricerca, lei abbia ripreso il “pensare per immagini” di Giordano Bruno citato da Ghirri.
Com’è nata l’idea di questo lavoro?
Matteo Parisini: Premesso che sono da sempre un appassionato della fotografia di Ghirri, devo dire che l’idea del film è scaturita dopo averne letto il libro in anteprima. Tramite i suoi scritti si entra un’altra dimensione. C’è un tale senso di profondità che consente di capirne il percorso artistico e quello umano. Una frase che amava ripetere era: «Io sono prima una persona, poi un fotografo». A tal proposito, nel documentario, Gianni Leone – collega e amico di Luigi Ghirri – dice una cosa che condivido: «Siamo sicuri che Luigi Ghirri sia stato solo un fotografo? Secondo me no. Secondo me è stato molto molto di più». In altre parole, per ricollegarmi a quanto hai affermato all’inizio, egli si è servito della fotografia per compiere un processo più ampio di analisi della realtà, da filosofo.
Qual è l’aspetto che più l’ha fatta appassionare al suo lavoro?
M.P.: Penso che siano due gli aspetti più importanti, che sono anche al centro del film: la memoria e la pulizia dello sguardo. Luigi Ghirri, spesso, viene associato alla pianura Padana; in realtà, come diceva lui, la provincia è un punto di partenza per andare oltre. Queste fotografie, viste in qualunque altra parte del mondo, da persone di ogni età, regalano tanto altro che, per me, è proprio la memoria. Memoria vista come memoria fantasia che si trasforma e permette a ciascuno di vedere quello che vuol vedere.
Quindi, la memoria in Ghirri non è legata alla nostalgia?
M.P.: Esatto. Perché, come ha detto anche il pittore Davide Benati: «Ghirri usava la macchina fotografica come un giocattolo». Questo gli ha permesso di andare oltre, in un’altra dimensione, inconscia. In altre parole: nelle fotografie di Ghirri ognuno vede cose diverse, a seconda del percorso che sta facendo.
Molto interessante. Penso che la fotografia di Luigi Ghirri sia intima ma non personale. E credo che questo gli conferisca un carattere ancora più universale. Cosa pensate di questo aspetto?
Ilaria Ghirri: Come dichiara nei suoi scritti, lui non cercava un personalismo. È intimo perché tocca quella memoria fantasia a cavallo tra reale e immaginario; per cui, attraverso le sue foto, è riuscito a rintracciare qualcosa di universale, degli archetipi, in cui ognuno si può riconoscere. Anche perché, l’intimità di Ghirri non è mai aggressiva, egli cerca sempre un’empatia con il mondo esterno. Come se, attraverso le sue immagini, ci aiutasse a stare nel mondo in un modo più consapevole, partecipato e sincero. Come se le sue foto fossero un veicolo per riconoscerci e ritrovarsi.
Adele Ghirri: Lui diceva: «Cerco di trovare un punto di equilibrio tra interno e esterno; tra me e il resto del mondo, tra quello che sento dentro di me e quello che c’è fuori». A riguardo, in un’intervista gli chiesero: «Cosa vorrebbe che si dicesse di lei in un ipotetico futuro?» Lui rispose: «Che ho cercato di circoscrivere il mio mondo interiore da quello esteriore. E, se potessero aggiungere un’altra riga? Che ci sono riuscito». Ricordo che uno stilista nigeriano, appassionato del suo lavoro, una volta mi ha detto: «Quando
guardo le sue foto mi sento a casa». A dimostrazione del fatto che Ghirri arriva anche a persone che provengono da altri luoghi del mondo, in cui ci sono altre luci, in cui lo spazio urbano e il paesaggio sono diversi.
Quanto al suo rapporto con l’architettura?
Adele Ghirri: Partirei dal fatto che lui era un geometra. Aveva studiato le regole
prospettiche e compositive, dal Rinascimento a oggi. Quindi è chiaro che questo tipo di equilibrio visivo lo ritroviamo anche nelle sue immagini, la costruzione dello spazio era parte del suo background.
Ilaria Ghirri: Nei suoi lavori sull’architettura, non ha mai celebrato gli architetti, ma ha lasciato che le architetture dialogassero con il loro contesto, guardandole come parte di esso, quasi come elementi naturali. Nelle immagini di architetture metteva sempre in risalto la semplicità del vivere dell’abitare; tant’è vero che rintracciava le spaccature, le imperfezioni, i tagli di luce, così da renderle sempre uniche ed affascinanti.
Parliamo del rapporto con la figura umana. È come se, nelle fotografie di Ghirri, la figura umana entrasse quasi per caso, spesso, infatti, è di spalle. Tuttavia, nello stesso tempo, mi pare che l’umano sia fondamentale nella sua ricerca. Come se, in questo caso, l’assenza dell’uomo fosse una presenza. Cosa ne pensate?
M.P: Nel documentario riprendiamo un discorso interessante. Luigi Ghirri dice: «Fotografo le persone di spalle perché la ricerca di un’identità è una strada difficile. Nelle mie fotografie tutti possono riconoscersi e cercare la propria identità». Secondo me questo discorso torna al precedente, ciascuno coglie nelle sue foto un contenuto in base al proprio vissuto personale.
Qual è il lascito più importante? Cosa ci dobbiamo tenere da questo film?
M.P: Secondo me Luigi Ghirri era molto altruista. Precorrendo i tempi diceva: «In
una società che va verso la sovrabbondanza di immagini, l’educazione all’immagine è un percorso fondamentale e infinito. Non solo per gli artisti, ma per tutti. Perché tutti la devono portare avanti, altrimenti il rischio è non vedere più niente».
Ilaria Ghirri: Forse l’idea di senso. L’immagine è uno straordinario strumento di conoscenza di sé e del mondo. C’è una frase di Calvino che amava molto: «Quando noi guardiamo i fenomeni è il mondo che guarda il mondo» Quindi la fotografia diventa una magnifica possibilità di entrare in relazione con l’esterno. Un “esterno” che diventa sempre più inconoscibile, pieno di geroglifici più che di segni decifrabili.
Foto ©eredi Luigi Ghirri