Il 9 maggio Giorgia Meloni ha aperto le danze al ballo mascherato delle riforme, convocando tutte le opposizioni a Palazzo Chigi. Si è trattato soltanto di un primo giro di danza per la scelta dei ballerini disposti a ballare sulle note di Fratelli d’Italia. Dopo questo giro saranno scartati i ballerini più distonici, ma Giorgia Meloni non ha paura di ballare da sola, anche se Renzi si è prontamente offerto di partecipare al gran ballo delle riforme costituzionali. Meloni non ha tirato fuori un suo progetto, come aveva fatto nella passata legislatura quando aveva presentato un disegno di legge di modifica della Costituzione (A.C. 716) ispirato all’iper presidenzialismo di tipo francese, che fu bocciato per pochi voti. In realtà il presidenzialismo è stato sempre un cavallo di battaglia del Movimento sociale (Msi) di Giorgio Almirante. Quel disegno esprimeva la tradizionale insofferenza dei fascisti per il regime parlamentare, coniugata con una concezione autoritaria dei poteri pubblici. Giorgia Meloni, avendo sempre orgogliosamente rivendicato la sua provenienza da quel fronte e da quella cultura politica, adesso ha la possibilità di mettere mano a quel progetto, incidendo su quegli assetti della democrazia costituzionale che i Costituenti avevano concepito per preservare l’ordinamento dal pericolo di svolte autoritarie.
Il paradosso dell’Italia è di avere una Costituzione scritta, partorita nel fuoco della Storia, che da oltre trent’anni è vissuta con insofferenza da molti settori dell’arco politico, a partire dalle famose picconate di Cossiga. Fino al punto che si è sviluppata quella che Giuseppe Dossetti ebbe a definire una “mitologia sostitutiva”. Vale a dire si imputano alla Costituzione quei problemi che la politica non riesce a risolvere, in questo modo si crea un mito che nasconde l’incapacità delle forze politiche di governo e di opposizione di indicare una prospettiva di sviluppo per la società italiana nel suo complesso scaricando i fallimenti della politica sulle istituzioni. Tutti i tentativi di riforma della Costituzione che si sono sviluppati negli anni, non sono venuti fuori da reali esigenze dei cittadini o da difetti degli ingranaggi costituzionali che abbiano pregiudicato l’attività di governo. La modifica dei meccanismi della democrazia costituzionale è un obiettivo che è sempre stato a cuore di ceti dirigenti, (sia di destra che di centrosinistra), che, accecati da una bulimia di potere, hanno posto mano a progetti di grande riforma della Costituzione rivolti a dare più potere al potere. Prima della Meloni ci aveva provato Berlusconi nel 2005, con una riforma che riscriveva completamente l’ordinamento della Repubblica, puntando ad una sorta di “premierato assoluto”, progetto sconfitto nel referendum del 25/26 giugno del 2006. Poi ci aveva riprovato Renzi nel 2016, modificando la Costituzione e la legge elettorale. L’Italicum introduceva un sistema elettorale, molto simile alla legge Acerbo del 1923, volto a creare le condizioni per il governo di un unico partito, sennonché il popolo italiano bocciò la riforma con il referendum del 4 dicembre 2016 e subito dopo la Corte Costituzionale dichiarò incostituzionale l’Italicum.
La presidente del Consiglio Meloni è cosciente del rischio che le proprie ambizioni costituenti possano essere travolte dal referendum, che opportunamente i Costituenti hanno previsto a garanzia della stabilità della Costituzione. Per questo sta sondando l’opposizione per scegliere fra i vari progetti quello che potrebbe incontrare la minore resistenza in Parlamento in modo da ottenere una maggioranza che le consenta di evitare il referendum. Comunque sia, una volta iniziate, le danze non si fermeranno perché Giorgia Meloni ci ha detto quali sono i suoi punti fermi: rispetto del voto dei cittadini e rispetto dell’impegno assunto con gli elettori di fare le riforme.
Sotto la formula del rispetto del voto espresso dai cittadini si cela l’opzione per una democrazia dell’investitura. La riduzione delle procedure della democrazia all’investitura del capo politico che, essendo eletto direttamente dai cittadini ha il diritto/dovere di governare, senza subire condizionamenti di sorta dal Parlamento o dagli organi di garanzia, costituisce la vera concezione istituzionale di questa destra. Meloni è disposta a trattare sul modello ma non sul principio dell’investitura. A questo riguardo, le “aperture” di Renzi e di Calenda sul cosiddetto “sindaco d’Italia” le hanno fornito un atout formidabile.
L’altro punto fermo è quello di un preteso rispetto degli impegni assunti con gli elettori.
Questa giustificazione deve essere respinta al mittente. Finquanto è vigente la Costituzione nessun partito può promettere agli elettori di fare la pelle alla Costituzione italiana perché sarebbe un atto eversivo. La gara elettorale si svolge all’interno di un quadro di regole e valori. Coloro che ottengono la maggioranza in Parlamento hanno il dovere di governare e sviluppare il loro progetti politici all’interno del quadro costituzionale predefinito, ma non possono attribuire al mandato elettorale la spinta a rovesciare il tavolo. Non c’è nessun mandato politico che consenta o autorizzi di mutare il volto della Repubblica, nata dalla Costituzione frutto della Resistenza.
Il magistrato Domenico Gallo è stato presidente di sezione della Corte di cassazione. Da sempre impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace, è stato senatore della Repubblica e fa parte del comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale