In un’epoca di omologazione imperante, culturale e politica, bisognerebbe coltivare, curare, proteggere come i Panda, la pratica del pensiero critico. Non tanto per condividerlo, ma come esercizio di riflessione, occasione di confronto. Invece si assiste, purtroppo soprattutto a sinistra, ad un appiattimento acritico sulle posizioni del vincitore di turno. Ma quel che appare più disarmante è l’accusa – talora esplicita, talora velata – verso chi prova a manifestare posizioni critiche, di accanimento pregiudiziale, di acrimonia, di prevenzione persino personale. Senza riflettere sul ragionamento, tutto politico, da cui nascono tali osservazioni. È il caso del “nuovo” Pd e della neosegretaria Schlein: un rincorrersi di elogi da far invidia a quelli a suo tempo espressi al Renzi trionfante.
Allora c’è bisogno di fare un po’ di chiarezza riguardo questo nuovo corso, secondo un ragionamento “tutto politico”, appunto, e che non ha nulla di personale, ma, appunto, su quel che non convince.
Intendiamoci, non è che non ci siano perplessità anche sulla vicenda e la figura della Schlein. Qualche esempio:
– la lunga narrazione che l’ha caratterizzata (e fatta crescere nell’immaginario come la “speranza della sinistra”) circa la necessità di costruire un soggetto di sinistra, civico, femminista, antifascista al di fuori del Pd, dimenticata in un batter d’occhio. Viene da pensare che non riuscendo a costruire un soggetto proprio abbia trovato l’occasione propizia per appropriarsi di quello altrui. Altrimenti perché non entrare nel Pd prima della rovinosa caduta di Letta per proporre il suo percorso?
– La evasività con cui rispose nella campagna delle primarie circa un suo giudizio sul comunismo – “non ero ancora nata” – che giustifica di fatto l’identico atteggiamento della Meloni verso il fascismo – anche la Meloni non era nata;
– L’evanescenza della richiesta di una “Pace giusta” per l’Ucraina, senza mai specificare cosa intenda per pace giusta: Ucraina nella Nato o no? E quel che è avvenuto nel Donbass, quale futuro, ecc?;
– La riproposizione, anche nelle ultime comparse in Tv, della necessità di una riforma elettorale, senza indicare quale;
– La contrarietà al progetto di Autonomia differenziata ma sempre aggiungendo “quella di Calderoli”, di cui chiede “una moratoria”, e lasciando intendere che un’altra può essere oggetto di trattativa.
Insomma, si potrebbe continuare, ma già questo basterebbe a giustificare molte perplessità su questo “nuovo corso”.
Ma il ragionamento, dicevamo, è più ampio e politico.
La vittoria della Schlein dimostra, qualora ce ne fosse bisogno, che il Pd è un partito “scalabile’”. Tanto scalabile che persino un esponente estraneo può appropriarsene, prendendo la tessera un mese prima delle Primarie. Ed è tanto scalabile che si può diventarne segretario/a persino a dispetto del partito stesso. La Schlein non vince le Primarie di partito (quelle dove scelgono i tesserati e militanti) ma quelle “aperte” (dove sceglie chiunque).
Ma se la Schlein ha davvero in mente di trasformare il Partito in un soggetto diverso dal precedente, un soggetto finalmente “di sinistra”, che chiude i ponti con le stagioni precedenti e le scelte scellerate precedenti (job act, accordi libici di Minniti, buona scuola, ecc), in fin dei conti un altro partito, non potrebbe che mettere in conto, anzi in qualche modo favorire, la fuoriuscita di tutta la classe dirigente che quelle scelte non solo aveva fatto ma che in qualche misura ancora rivendicano. Non si tratterebbe di una resa di conti, ma di un partito che si dà un’identità precisa e che, conseguentemente, non può contenere allo stesso tempo chi rimpiange identità diverse.
Non sarebbe un male, quindi, ma un’operazione di chiarezza. Da un lato, come si dice persino oggi con l’uscita (degnissima nelle modalità) di Cottarelli, si perde una porzione di ceto di riferimento e di elettorato “liberista e centrista”, ma si recupererebbe dall’altro l’elettorato sfiduciato di sinistra che in questi anni ha alimentato fortemente l’astensionismo. E avrebbe persino maggiori chance di recuperare anche tra l’elettorato, parte del Movimento 5S di Conte.
Ma se le regole del Pd restano le stesse, il grosso del gruppo dirigente resta lo stesso, le pratiche restano le stesse, la vittoria della Schlein altro non risulterebbe che un’ennesima stagione, effimera per quanto apparentemente entusiasmante, come prima è stata quella di Renzi, poi di Zingaretti (la sinistra del dopo-Renzi), infine di Letta (il salvatore richiamato dall’esilio). In attesa di una nuova stagione, magari con il ritorno di un nuovo Renzi (appunto, il Pd sempre scalabile).
La stagione della neosegretaria quindi, sarebbe la riproposizione, anche se formalmente negata, di una politica e delle scelte conseguenti, legata ad una visione, e pratica, dell’uomo/donna solo/a al comando, pronta a ricambiare pelle all’affacciarsi di un altro uomo/donna.
Perché se proponi un partito che è cosa diversa da prima, poi devi essere conseguente, e devi consentire alla gente, alle persone che pure ti seguono, di capire che non si è solo chiusa una stagione nefasta, ma si fa in modo che non possa tornare. Consentire cioè a molti di riconoscersi in questo partito che del precedente, per vezzo, per difesa del “brand”, mantiene solo quel nome, Pd, ma che ha chiuso con il liberismo, con le stagioni dei dialoghi con Marchionne, che non si piega al mercato, che contrasta il precariato, l’abominio della scuola-lavoro ecc., ma ha una nuova e davvero diversa visione, prospettiva, obiettivo, funzione, composizione.
Ma se così fosse, ad oggi, come interpretare il segnale dato solo pochi giorni fa dai parlamentari europei del Pd che hanno condiviso e votato la riconversione di fondi Pnrr da obiettivi sociali a finanziamento per produzione di armi? Gli stessi che votarono l’equiparazione tra nazismo e comunismo. Possibile che il partito non abbia dato indicazioni? E se le ha date, quali: contrarie, e quindi disattese, o favorevoli? In tutti i casi un segnale devastante.
Può ancora il Pd avere come caratteristica principale l’ambiguità – prima centrista ora di “sinistra”? Si può continuare con risposte evasive ed evanescenti?
Che tutto ciò non basti è confermato anche dai risultati delle amministrative (14 e 15 maggio) dove si registra un ulteriore calo dell’affluenza del 3% (i votanti passano dal 62% al 59%), che dovrebbe essere un assillo per la sinistra a prescindere dagli esiti. E i cui esiti comunque, al di là delle narrazioni, raccontano che, sempre al netto della scarsa affluenza, vedono sì il centrosinistra vincere a Brescia – in alleanza con Italia Viva e Azione e non con i 5Stelle – e a Teramo – con i 5Stelle ma non con Italia Viva e Azione – (“geometrie variabili” si sarebbe detto un tempo e oggi si preferisce “dinamiche locali”), ma al contempo si perde fortemente a Imperia, Sondrio, Latina e quasi ovunque il centrosinistra arranca, persino a Siena, Pisa, Ancona, Massa.
Che segnale è candidare a Catania con il centrosinistra Ilaria Paolillo (dirigente del partito anmalista ndr) che in contemporanea si candida con il centrodestra a Gravina? Ma qual è il senso, il segnale? Per carità, un episodio “minore”, che però forse ci racconta molto delle pratiche ancora in uso.
E non può bastare dire che il nuovo Pd c’è da solo un mese, perché le lune di miele possono esaurirsi anche dopo la prima notte.
Tutto questo giustifica vecchie e nuove perplessità, cui bisognerebbe dare risposte certe, univoche, definite se si vuole davvero costruire, ricostruire una casa comune, abbandonando tutte le ambiguità e atteggiamenti buoni per tutte le stagioni (voglio la Pace nel mondo). Non basta dire “ci sono solo da un mese, quello era un altro Pd”. Perché come sa bene la Schlein per avercelo raccontato in questi anni, il popolo di sinistra è generoso, volenteroso, disponibile, ma da troppo tempo fiaccato da facili entusiasmi e da rovinose disillusioni.
L’autore: Lionello Fittante è tra i promotori deli Autoconvocati di Leu, ex membro del Comitato nazionale del movimento politico èViva
Nella foto: frame del video della conferenza stampa di Elly Schlein, Roma, 16 maggio 2023