Sono passati due anni dal ritiro delle forze Usa e Nato: l’Afghanistan è tornato a essere un Paese in estrema povertà, con il regime talebano che si accanisce sempre più contro le donne, lasciate senza istruzione né lavoro
«Dal 2015 in poi è stato l’inferno, non lasciavo uscire i miei bambini nemmeno per giocare con i vicini in strada per la paura che potessero incappare in uno scontro a fuoco. Da un paio d’anni invece la città quanto meno è sicura. Abbiamo anche l’elettricità quasi tutto il giorno, almeno qui nel sud. Il vero dispiacere è per le mie figlie che non possono frequentare la scuola superiore e devono restare sempre a casa. Spero che questo cambi presto». Hamir snocciola la propria storia mentre gli occhi rimpallano tra i mille ostacoli delle strade impolverate di Kandahar. Nel viavai del bazar a due passi dai villini arabeggianti di Aino Mina i venditori di fichi appena maturi creano un cordone ai lati del marciapiede rallentando il traffico in un imbuto di urla e mani agitate. All’improvviso una jeep tappezzata dei colori mimetici dell’esercito mujaheddin taglia la strada lasciando appena il tempo per una sterzata di fortuna. Hamir con un movimento delle sopracciglia indica la bandiera bianca con i glifi neri dell’Emirato islamico dell’Afghanistan che svolazza indifferente a un angolo del parabrezza. «Ci dovevi essere prima Gulalai Saib, per vedere in che situazione vivevamo». Queste ultime parole scivolano via con un tono più basso, quasi a scavare a fondo in un passato scritto ancora nelle facciate dei palazzi crivellati e sulle macerie di ponti mai più ricostruiti. E in effetti basta uno sguardo al di fuori del finestrino per leggere nella realtà attorno le cromature sfiorite di un Paese stretto nel limbo di una guerra sì chiusa, ma mai del tutto.
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