Nella vita di ogni politico, ma vale per ogni umano, c’è un momento in cui si incrocia la sorte intesa non come destino, fato, fortuna o sfortuna. Sorte intesa in maniera laica: un insieme di circostanze che, per chi si dedica all’arte più controversa della storia, la politica appunto, è legata al proprio partito e a fattori sociali, economici, culturali. E anche al carattere. Nel caso di Giorgia Meloni è il caso sottolineare la coincidenza della scomparsa di Giorgio Napolitano che nel 2011 spinse Silvio Berlusconi alle dimissioni per insidiare un governo tecnico guidato da Mario Monti. I dieci anni di austerità che seguirono hanno fatto esplodere il fenomeno del populismo, in versione 5 Stelle e leghista, e del sovranismo. È stato il trionfo delle promesse roboanti e ingannatrici, un falò delle vanità che ha trascinato un pezzo importante di opinione pubblica a votare in maniera schizofrenica.
All’inizio Fratelli d’Italia rimane in un angolo a mangiare la polvere, ma ciò consente a Meloni di costruire attorno alla sua figura la narrazione dell’urderdog: una donna che urla di essere madre e cristiana, che rimane all’opposizione mentre il Cavaliere vota la fiducia a Monti considerato da lei il terminale delle “consorterie europee” e di una sorte di golpe orchestrato da Francia e Germania. Il centrodestra si divide, un pezzo importante del suo elettorato vota il Pd di Matteo Renzi e Matteo Salvini nel 2018 commette l’errore di imbarcarsi in una maggioranza con i grillini, lasciando all’urderdog il monopolio dell’opposizione. La grancassa sovranista, in Italia e in Europa fino agli Stati Uniti, fa il resto, aumentando il volume delle promesse. Meloni in particolare lancia, tra le tante, la bufala del blocco navale mentre arrivano migliaia di migranti sulle nostre coste mettendo in crisi gli esecutivi di centrosinistra. Agita la bandiera securitaria, che fa sempre presa sugli elettori di destra, quella identitaria della stirpe italica. Capisce che è il momento di riprendersi i voti che furono dell’Msi e di Alleanza nazionale, che Salvini aveva cannibalizzato. Comprende che deve affondare il coltello nell’elettorato di Berlusconi ormai in piena fase di decadenza politica e biologica.
In sostanza quel 26 per cento ottenuto di Fratelli d’Italia il 25 settembre dello scorso anno ha cambiato la fisionomia del centrodestra. Oggi è una destra che domina la politica italiana con il moncherino di un pallido centro guidato da Antonio Tajani, senza il carisma del fondatore di Forza Italia. Così l’underdog entra nelle stanze dei bottoni dal portone principale di Palazzo Chigi, la prima donna premier che avrebbe dovuto mantenere le promesse elettorali. E qui arriva all’appuntamento con la sorte, anzi con il contrappasso della storia, con il fenomeno dell’immigrazione. Le navi militari non sono uscite dai porti per formare una muraglia di acciaio davanti alle coste tunisine e libiche. Ma era chiaro che si trattava di una soluzione impossibile, anche se ora viene declinata come una nuova operazione Sophia, quindi europea e con il consenso dei Paesi da cui partono i migranti. Per dirla con un linguaggio caro a Meloni: “Ciao core”. Per inciso, l’operazione Sophia è stata smantellata quando nel primo governo Conte il ministro dell’Interno era Salvini.
La nemesi poi ha voluto che l’Europa, prima matrigna, ora è diventata essenziale per “blindare” i confini esterni e siglare accordi con alcuni piccoli dittatori maghrebini, in cambio di soldi e senza garanzie sui diritti umani. Bruxelles, che nella propaganda sovranista era additata come la capitale dei mondialismi liberali, aguzzini dei popoli, adesso ha il volto di Ursula von der Leyen diventata amica di Meloni. I loro rapporti sono talmente stretti che la premier la vorrebbe di nuovo alla presidenza della Commissione Ue dopo le elezioni europee del 2024. Con un’incognita terribile per la sorte meloniana. Cosa succederà se dalle urne europee, come è molto probabile, non uscirà una maggioranza alternativa ai Socialisti? La premier spera di portare a Strasburgo tanti eurodeputati Conservatori, insieme ai polacchi. Una dote parlamentare tale da essere autosufficiente al gestire il nuovo potere di Bruxelles con i Popolari di Manfred Weber e Ursula von der Leyen.
Mancano nove mesi al voto, ma non sembra possibile mandare all’opposizione i Socialisti, il governo socialdemocratico tedesco, quello socialista di Sanchez nonché i liberali di Macron. Quindi, Meloni dovrà decidere se rimanere lei fuori dalla nuova maggioranza Ursula o sedersi attorno al tavolo con gli acerrimi nemici di sinistra che in questi giorni vengono indicati da Roma come coloro che complottano contro gli interessi italiani.
Ecco, questo è uno di quei bivi in cui la leader di Fratelli d’Italia si giocherà tutte le sue fiches. Non a caso Salvini, che non vede l’ora di riprendersi tutti i voti che gli ha sfilato sotto il naso l’underdog, la sta incalzando proponendogli il patto anti-inciucio (mai con i socialisti). Lo stesso patto che lui nel 2018 si rifiutò di siglare a Roma.
Ecco, dopo un anno di governo, per Meloni è arrivato il momento di far capire chi sia veramente o vorrà essere. Non basta, anzi non serve, a mio avviso, continuare a dire che lei è fascista, che il suo stretto giro viene dai consanguinei, parenti, dal Fronte della Gioventù, da Colle Oppio o dalla Garbatella. Per lei sono medaglie al petto che rinsaldano radici e un pezzo di elettorato di destra. Non è sufficiente constatare che è nemica del mondo Lgbt, ha introdotto nella normativa italiana l’incredibile reato universale sulla maternità surrogata, sta tentando di sostituire l’esangue e tramontata egemonia culturale di sinistra con una improbabile egemonia di destra.
Molto più interessante per capire come girano le cose è analizzare le sue metamorfosi.
La premier è schierata con l’elmetto in testa al fianco dell’Ucraina e degli Stati Uniti. Va a Washington ed esce dalla Sala Ovale della Casa Bianca promettendo di stracciare il memorandum sulla Via della Seta (come poi ha fatto) e con l’eco delle parole di Joe Biden che dice alla stampa «io e Giorgia siamo diventati amici». La stessa Giorgia che presto dovrà dire se è ancora una grande fan di Donald Trump nella prossima campagna elettorale americana, se si sente ancora dalla parte dei Repubblicani che vorrebbero tagliare l’arsenale di Zelensky. Le metamorfosi rispetto all’Europa le abbiamo citate e siamo solo all’inizio. Quella sui conti pubblici è in queste ore sotto gli occhi di tutti. Pochissimi risorse che costringono il ministro dell’Economia Giorgetti a scrivere la prossima manovra finanziaria come facevano i tecnici delle “consorterie europee” e i vari premier del Pd durante i “favolosi” anni dell’opposizione meloniana: prudente, sobria, con venature forti di austerità, in sintonia con Bruxelles. Niente flat tax, cancellazione della riforma Fornero, ponte sullo Stretto e promesse elettorali varie. Tutto in stand by. Ma certo, dicono in coro nella maggioranza, abbiamo ancora quattro anni di legislatura. Di più, di più, assicura Salvini di cui fidarsi è meglio di no: “cinque più cinque”, minaccia il leghista, immaginando due legislature.
Metamorfosi Giorgia è il titolo del mio libro in uscita in questi giorni (il 28 settembre per i tipi de Linkiesta), un anno di governo Meloni. Un anno sul filo della dicotomia irredimibile, una sorta di schizofrenia politica. La premier pretende di tenere insieme tutto il suo passato di destra radicale e identitaria e le forche caudine di chi deve governare un Paese del G7. È l’acrobazia di rimanere sovranista-patriottica e allo stesso tempo praticare la consapevolezza che solo con il sovranismo europeo una piccola Patria come la nostra può affrontare i giganti della geopolitica, essere autonoma dal punto di vista energetico, sopravvivere all’impetuosa rivoluzione tecnologica in cui siamo immersi e rischiano di annegare milioni di lavoratori.
Non è certamente la ridotta di una destra nazionalista che può fare gli interessi del Paese. Per questo Meloni dovrà uscire dalla confort zone delle metamorfosi e magari accettare di avere avversari a destra, come Salvini. Del resto, lei è la vera erede di Berlusconi e di quell’elettorato che nel mio libro chiamo i “patrioti interessati” ovvero quell’elettorato interessato alla pura convenienza economica, all’abbassamento delle tasse, alle sanatorie, alle rottamazioni e ai condoni. Intendiamoci, è un elettorato trasversale, ma in passato il fondatore di Mediaset lo ha interpretato e rappresento nel migliore dei modi, assicurando al suo partito percentuali stabilmente attorno al 30 per cento. La stessa cosa sta succedendo a Fratelli d’Italia. È una banale constatazione ricordare che i voti di quelli che votavano MSI e An non hanno mai superato il 10 per cento. Ora il partito di Meloni rimane ancorato alle percentuali che avevano una volta Forza Italia e la Lega fino ad alcuni anni fa. Fino a quando durerà la luna di miele?
Dall’opposizione non sembrano venire pericoli per questa destra che ha portato al governo una classe dirigente modesta e non sta mantenendo le promesse elettorali. Come era prevedibile. Il punto è se l’elettorato che unisce “patrioti umorali” e quelli “interessati” comincerà ad essere deluso. Ricordiamoci che in quegli ultimi lustri gli italiani si sono ciclicamente innamoratI e disinnamorati di vari “masanielli”, saltando come cavallette da un partito all’altro, da un populista a un altro che gridava più forte.
Non credo che la pallina della roulette si sia fermata. Magari per un po’ sì, ma potrebbe ricominciare a girare alle europee. È possibile che ci sia un’autocombustione nella maggioranza: pensate cosa potrebbe succedere se Meloni si accodasse alla tavola di una nuova maggioranza Ursula, insieme ai Socialisti, mentre Salvini passeggia sconsolato davanti a Palazzo Berlaymont a braccetto di madame Le Pen.
È un film tutto da vedere e potremmo anche divertici e mangiare pop corn, se non fosse che non c’è nulla di divertente. Sono in ballo, e non è retorico dirlo, non solo la sorte politica di un pugno di leader politici, ma quella di tutti noi, del Paese, di chi ogni giorno deve fare i conti con i pochi soldi in tasca, con il lavoro precario e sottopagato, con un titolo di studio da buttare nel cestino. E non si può nemmeno permettere il lusso di evadere o elude le tasse.