Trenta giorni di eccidi, prima di civili israeliani, ora di civili palestinesi. Larga parte del mondo e degli stessi israeliani si chiede quale sia il disegno politico del governo israeliano guidato da Netanyahu che dichiara di voler eliminare completamente Hamas. Ma il risultato è che gli eccidi di civili a Gaza e le uccisioni da parte dei coloni anche in Cisgiordania stanno rafforzando Hamas nella disperata percezione del popolo palestinese; che è un popolo che non si arrenderà mai. A questo punto, allora, siamo ad un genocidio vero e proprio, in base al diritto internazionale.
È, infatti, la Convenzione Onu del 9 dicembre 1948 che regola i canoni del delitto di genocidio. Essa indica atti che vengono connessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un «gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Il genocidio non può essere giustificato invocando il diritto di difesa che l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite riconosce ad ogni Stato che sia vittima di una aggressione armata. Occorrono proporzione e prospettiva. Nel conflitto mediorientale una Conferenza internazionale di pace non può essere nemmeno ipotizzata se non dopo il cessate il fuoco urgente per fermare la “punizione collettiva” del popolo di Gaza.
Per comprendere a fondo l’attuale progetto dello Stato di Israele dovremmo, rompendo la gabbia dei pregiudizi e degli anatemi propagandistici, analizzare il passaggio dal sionismo, nato come movimento laico e liberale, ai suoi approdi attuali, figli dei condizionamenti attuati da movimenti teocratici dei partiti delle destre (come il Likud) e di destra estrema, oggi al governo. È un contesto politico che incide molto anche sugli assetti democratici interni, come dimostra il vero e proprio sommovimento della società civile israeliana nei confronti del tentativo di istaurare una autocrazia. L’attuale governo sostanzialmente tenta di attuare uno Stato “ebraico” con l’esclusione dei Palestinesi . Andando anche oltre l’attuale status di “apartheid” documentato anche da Amnesty International.
Un interrogativo, a questo punto, si impone: in base al diritto internazionale, uno Stato che occupa militarmente i territori di un altro popolo e li sottrae definitivamente attraverso la politica di colonizzazione non distrugge anche il proprio stato di diritto, la propria democrazia? Anche perché un futuro, indispensabile Stato palestinese non potrà essere un “bantustan”; esso dovrà avere, in base alle risoluzioni Onu, continuità e contiguità di territorio, autonomia amministrativa, finanziaria, militare. Si è aperta fra intellettuali democratici sia mediorientali che europei che statunitensi, a proposito delle future statualità, una riflessione decisiva, anche sul terreno politico futuro: falliti gli accordi di Oslo, fondati sui due Stati, resi poco credibili anche per la politica israeliana di occupazioni coloniali e di predazione dei territori su cui dovrebbe sorgere il futuro Stato palestinese, è realizzabile la soluzione di un unico Stato? Sembra impossibile, soprattutto dopo che Israele si è normativamente autodefinito Stato degli Ebrei (dal 2018 ndr).
È interessante la riflessione che attivisti palestinesi ed israeliani stanno, insieme, compiendo. L’importante movimento “Una terra per tutti” propone una confederazione israelo/palestinese che implichi i seguenti principii: due Stati indipendenti, lungo i confini del 1967; una struttura federata con istituzioni condivise che governino questioni di interesse reciproco; frontiere aperte e libertà di movimento per i cittadini di entrambi gli Stati, che possano vivere ovunque vogliano; Gerusalemme città aperta, capitale di entrambi gli Stati. Verrebbe, così, rispettato anche il “diritto al ritorno”. Certo, non sarà facile. Occorrerebbe un tavolo internazionale coordinato da un’Onu rediviva. La soluzione è tutta da costruire. «Senza uguali diritti per tutti, sia in uno Stato, due Stati o in qualsiasi altro quadro politico, vi è sempre il pericolo di una dittatura. Non potrà esserci democrazia per gli Ebrei in Israele finché i Palestinesi vivranno sotto un regime di apartheid». È l’inizio della lettera alla comunità ebraica statunitense duemila accademici, compresi sionisti tradizionali, studiosi dell’Olocausto, docenti di storia alla Chapman University. Uno spiraglio di luce, un soffio di speranza.
Nella foto: frame di un video sui bombardamenti nella Striscia di Gaza (Euronews), 28 ottobre 2023