Marcello Montibeller è medico d’urgenza, storico della filosofia e poeta, vite parallele che, a differenza delle rette, si incontrano. È da poco uscito per Edizioni Ensemble la sua prima raccolta poetica Lo zaino in spalla, ricca di immagini di vita, quella vissuta tra partenze, metaforiche e non, incontri, reali e non e tra le corsie del suo ospedale. Una visuale privilegiata su un ventaglio di umanità ampissimo, del quale ad un certo punto è stato impossibile non scrivere. In attesa della presentazione della raccolta che si terrà il 19 novembre alla Libreria Libraccio di Firenze, alle 11,30 ne parliamo direttamente con lui.
Medico di Medicina d’Urgenza, storico della filosofia e ora anche poeta: come confluiscono questi aspetti nella sua vita?
La domanda mi conferisce un’aria talmente seria che mi verrebbe da sdrammatizzare: sono uno sfogo ad un problema di grafomania! Battute a parte, è molto difficile riportare un’esperienza umana a una sola chiave di lettura. Tra le molte possibili potrei sceglierne una: che in qualche modo trovo un punto di unità nell’interesse verso questa dimensione peculiare che è la dimensione degli esseri umani. Sono partito dalla filosofia sperando di addentrarmi nel pensiero umano. La medicina è stata la ‘messa a terra’ delle riflessioni precedenti, l’essere umano concreto contrapposto all’essere umano come categoria. Questa concretezza ha avuto un riverbero anche sulle riflessioni teoriche modificandole. Si è creata una dialettica personale tra concettuale e materiale. La poesia raccoglie tutto ciò che di questa dialettica non capisco o non so dire, ma che pure preme per essere espresso. Per questo è una necessità vitale.
Ci sono stati dei momenti in particolari, diciamo pure di svolta, per i quali ha sentito la necessità di scrivere?
Le poesie sono organizzate in ordine cronologico secondo un piano narrativo che è costituito dal racconto di un viaggio: il viaggio della vita adulta di cui sono rievocati, a partire dall’adolescenza, i momenti salienti. Il fatto biografico posto dietro alle composizioni è scandito da tre eventi salienti: la morte di mia madre, la separazione da quella che era stata fino a quel momento la mia compagna di vita, la mia attività come medico di medicina d’urgenza durante la pandemia. L’esperienza che ne è derivata è stata quella del contatto costante, quotidiano, con la rottura, la separazione, la morte. Difronte al continuo dissolversi delle cose e delle persone la necessità di scrivere è diventata di colpo anche necessità di comunicare. Il piano dell’opera non è altro che un viaggio che finisce per chiudersi in un cerchio: dalla partenza adolescenziale, timorosa e fiduciosa a un tempo, e forse anche ingenua, della mia adolescenza nella prima composizione, fino alla partenza (o ri-partenza) adulta, e perciò meno retorica, nell’ultima. In mezzo, come in un flusso di immagini e di coscienza, compaiono le figure che hanno segnato la mia vita e che, ora nel loro slancio vitale autentico, ora nel loro doloroso inganno, ne hanno delineato il percorso; alcune di esse hanno sembianze di incontri reali, altre sono incontri intuiti, sperati, temuti o immaginati; in ogni caso tutte, nel ‘visitarmi’ mi hanno riportato a un’unità dell’esperienza, a qualcosa che, infine, era pur capace di rimanere, nonostante l’apparente impermanenza di ogni cosa.
La raccolta ha un titolo molto evocativo. Vuole raccontarci perché lo ha scelto?
Il titolo contiene contemporaneamente il richiamo a un elemento autobiografico e a un elemento testuale. L’elemento autobiografico è presto detto: avendo lasciato la casa dei miei genitori in giovanissima età ho il ricordo netto del momento in cui preparai e misi in spalla lo zaino che per me significava il viatico del non ritorno. La partenza. La necessità di essere pronto a non tornare. Ritrovai poi, con grande commozione, questa immagine nel romanzo Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki in cui il protagonista adolescente lascia la casa paterna e, proprio nella preparazione del suo zaino, realizza di dover improvvisamente maturare, appena adolescente, la forza necessaria ad affrontare il mondo.
Che cosa significa scrivere poesia?
Edoardo Sanguineti ha definito la poesia «uno sguardo vergine sulla realtà». Si tratta di una definizione che mi piace molto. Riuscire ad avere, per un istante, uno sguardo vergine sulla realtà, in qualche modo trovarsi a contemplare l’andamento del torrente degli eventi dalla giusta distanza, e insieme con la giusta dose di meraviglia e di curiosità, può essere uno degli elementi che trasforma la scrittura in scrittura poetica, credo. Ma in cosa consiste questa verginità dello sguardo? Credo che essa si ponga sul versante opposto dell’ingenuità. Sono convinto che scrivere poesia sia possibile solo quando lo sguardo di chi scrive si sia astratto per un momento dal fluire disordinato delle percezioni e abbia potuto cogliere gli elementi dissonanti della realtà, se ne sia lasciato pervadere e abbia espresso il prodotto di tale dissonanza interiorizzata in una forma linguistica differente: quella della musicalità, dell’orecchio, per così dire, e quella della raffiguratività, cioè delle immagini mentali che è capace di evocare.
E dal punto di vista della prassi cosa vuol dire scrivere?
Dal punto di vista della prassi scrivere poesia significa compiere un lavoro: si segue l’orecchio, si seguono le immagini, finché non si ha la sensazione che qualcosa si sia espresso o, meglio, che si sia giunti vicini all’espressione. Più ci si avvicina all’espressione e più la poesia perde soggettività, diventa universale. I migliori scritti che si possono produrre sono forse quelli che più intensamente si sente di aver perduto, quelli sui quali si sente di poter esercitare meno possesso.
Ha detto di aver cominciato a scrivere sin dall’infanzia
Si, scrivo poesie dall’età di sette anni. Lo stimolo a scrivere credo sia nato dall’invaghimento per una mia compagna di classe, a cui dedicai la prima composizione. Cominciai allora a scrivere poesie su tutti i miei affetti finché non ne riempii il quaderno. Oggi ritengo che il mio primo tentativo di scrivere versi fu il tentativo di trovare un modo per toccare quella parte di cose che, pur sentite con tanta forza, non potevano essere dette. Da allora non ho più smesso di provare a far versi. Nacque proprio allora in me il desiderio di diventare medico: continuo a chiedermi se occuparmi degli altri esseri umani non fosse un altro, parallelo, tentativo di colmare quella distanza.
Chi è un poeta oggi? Lei si definisce poeta?
Non credo che esista una differenza essenziale, se non sociale, e in particolar modo legata alla perdita di funzione sociale, tra l’essere poeta “oggi” ed essere poeta in generale . Per quanto riguarda me, più che definirmi poeta, preferisco definirmi un individuo in dialogo continuo con il tentativo di esprimere in forma in qualche modo essenziale la realtà che riesce a percepire