16 anni fa, 6 dicembre 2007, Torino, alle acciaierie della ThyssenKrupp si lavorava ininterrottamente, la fatica si mescolava all’assenza di sicurezza nella fabbrica. Produrre, produrre e produrre era la mission. Gli stessi strumenti che dovevano garantire di poter lavorare in sicurezza, usati e carichi di olio, divennero elemento combustibile che rese l’incendio incontrollabile. Otto lavoratori furono coinvolti, in sette persero la vita, ci fu chi ebbe la “fortuna” di una breve agonia, chi morì dopo un mese. Ne seguì un processo che in primo grado condannò i responsabili per omicidio volontario ma la sentenza venne ribaltata in appello e l’accusa divenne di omicidio colposo, con pene più lievi.
I familiari delle vittime dovettero accettare anche un misero risarcimento che poneva fine ad ogni ulteriore possibilità di chiedere giustizia. Un evento che allora sconvolse non solo Torino ma l’intero Paese, che provocò rabbia, indignazione e che costrinse a scoprire che gli “operai”, quell’entità di cui da anni, anche in una certa sinistra si era decretata la scomparsa, esistevano ancora e soprattutto morivano ancora di lavoro, sul lavoro, per le condizioni di lavoro. Ma le reazioni durarono poco, vennero circoscritte, non si tramutarono mai realmente in cambiamenti legislativi, in interventi politici necessari, in mobilitazioni. In tanti altri luoghi di lavoro si continuò a morire come se nulla fosse e laddove si sopravviveva agli infortuni, ci si ritrovava sovente inabili a ritrovare un occupazione, feriti nella propria esistenza. Una guerra quotidiana e silenziosa che trovava spazio nei media solo quando i cosiddetti “incidenti” divenivano troppo eclatanti, per il resto poche righe in cronaca, processi silenziosi e via, guai a fermare la produzione, guai anche a rallentarne i ritmi, cosa conta una vita quando c’è sempre qualcuno per sostituire chi ha perso la vita, spesso per uno stipendio da fame.
ùFacciamo un salto, un’altra morte che è riuscita a rompere il muro di gomma che caratterizza quelli che ci permettiamo di chiamare omicidi. C’è ancora chi lo ricorda il sorriso contagioso e solare di Luana D’Orazio, giovanissima risucchiata il 3 maggio 2021 da un orditoio manomesso, con sistemi di sicurezza non funzionanti per incrementare la produzione. La sua morte è rimasta impunita. La Procura di Prato ha accolto la richiesta di patteggiamento dei 2 titolari dell’azienda tessile in cui lavorava la ragazza, condannandoli per omicidio colposo e rimozione dolosa delle cautele antinfortunistiche a pene, rispettivamente di 2 anni e di un anno e sei mesi, con sospensione della pena. Questo vale la vita di una lavoratrice.
Secondo l’USB (Unione Sindacale di Base) e la Rete Iside, questo purtroppo è normale che accada perché in Italia non esiste un articolo del Codice penale che preveda l’omicidio sul lavoro. La proposta di legge per l’introduzione di tale reato è stata presentata in parlamento nella precedente legislatura alla Camera, dalla componente ManifestA, (prima firmataria Simona Suriano), ma non è mai stata messa nell’agenda dei lavori parlamentari ed è decaduta con la fine della legislatura, nel silenzio assordante di tutti. Se questa proposta fosse stata approvata i colpevoli della morte di Luana D’Orazio avrebbero rischiato una pena fra i 5 e i 10 anni, con aumento fino a 18 anni per l’aggravante di aver modificato per esigenze di produzione, i sistemi di protezione dei macchinari.
I promotori non si sono arresi e il 4 novembre scorso anche alla nuova ministra del Lavoro, Marina Calderone è stata presentata la proposta e questa è stata avanzata a tutte le forze politiche. Il reato di omicidio sul lavoro farebbe sì che per i datori di lavoro non sia più conveniente speculare sulla vita dei propri dipendenti. «Dal nostro punto di vista – dichiarano i proponenti -, la questione non riguarda soltanto la pena: ci sembra ipocrita chi oggi sostiene, dopo anni di inazione e concertazione, che l’ingiustizia della sentenza riguardi solamente il patteggiamento, e lo stesso vale per chi si limita a indignarsi per la strage di lavoratori in corso. Ricordiamo che nel 2022 contiamo, a oggi, 914 morti di lavoro. Di questi 652 sono morti sul posto di lavoro e 258 in itinere: centinaia di vittime che in parte sarebbe stato possibile evitare se fosse stata in vigore la nostra legge. Esattamente come accaduto nel 2016, quando l’introduzione del reato di omicidio stradale ha portato a un calo delle vittime della strada». Il silenzio della politica istituzionale non ha portato a rassegnazione: si è costituito un comitato, con altre associazioni, forze politiche, singoli, che ha iniziato da mesi la raccolta firme per una petizione popolare da portare in parlamento perché questa proposta venga presa in esame e proprio nell’anniversario della strage della Tyssen in molte città d’Italia ci sarà una giornata comune per poter firmare. Tutte le info e la procedura di firma online sono accessibili sul sito https://leggeomicidiosullavoro.it/ L’importanza della proposta, della raccolta firme che permette di confrontarsi quotidianamente con questa strage silenziosa è anche legata al fatto che in questa maniera, un tema relegato in una oscena normalità – spesso ce la si prende anche con chi lavora che avrebbe “scelto” di non avvalersi delle norme di sicurezza – diviene una tragedia che si chiude fra quattro mura, fra una famiglia che ha perso una persona, non diventi questione sociale in grado di scaldare lo scenario politico. Oggi la tecnologia permetterebbe, persino facendo uso sociale dell’intelligenza artificiale, di rendere il lavoro sicuro e non un mondo in cui si entra senza sapere se si riesce a uscirne sane/i, l’innovazione potrebbe garantire condizioni di vita, nei luoghi in cui si passa gran parte del tempo di vita, quantomeno umane e sicure. Ma di questa “sicurezza” ci si vuole occupare poco, meglio utilizzare tale termine per ogni questione di cosiddetto ordine pubblico, non certo per il benessere sociale. Eppure far divenire questo tema parte del discorso pubblico potrebbe produrre un cambiamento del senso comune: farebbe scoprire che a subire infortuni, spesso mortali, sono lavoratori e lavoratrici troppo anziani per sopportare certi carichi di lavoro e certi impieghi o troppo giovani e inesperti, che fra gli infortunati sono molti i lavoratori stranieri a cui semplicemente spiegare le norme di sicurezza è un optional. Parlarne, anche attraverso una raccolta firme, far giungere in parlamento una simile richiesta di semplice buon senso, potrebbe convincere a ragionare in merito a quelli che sono i propri diritti e che spesso vengono ignorati e quindi calpestati. Un tema che è strutturalmente politico ma che raccoglie anche richieste di semplice rispetto umano: « Non si accendono i riflettori su queste morti, nemmeno per un attimo. – Ribadiscono tristemente dalla Rete Iside -Il valore della vita va a corrente alternata, quando muoiono i lavoratori è quasi sempre spenta. Introdurre il reato di omicidio sul lavoro per tenere accesa la luce perché chi uccide per sfruttamento non possa contare sull’oblio». C’è ancora un po’ di tempo per firmare, per tenersi informati sul sito, per aggregarsi ad una richiesta che nasce spesso da dolori mai rimossi. Una lotta che comprende l’esistenza di tutte e tutti. Per questo, chi scrive, si unisce alle tante e ai tanti di chi invita a firmare.
Foto Di Foto-dus – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=34664366