Nel 2003, dopo più di un decennio di guerre atroci, la Jugoslavia cessava formalmente di esistere. Nei fatti, aveva smesso di esistere da tempo: Slovenia, Croazia e Macedonia avevano ottenuto, nella violenta esplosione di nazionalismi contrapposti del decennio precedente, l’indipendenza dal governo di Belgrado. La Serbia, sconfitta e isolata dopo i bombardamenti Nato del 1999, aveva continuato ad aggrapparsi al nome di “Jugoslavia” fino al 2003, quando su pressione delle Nazioni Unite aveva dovuto abbandonarlo definitivamente in favore di “Unione Statale di Serbia e Montenegro”. Nello stesso anno moriva anche Merlinka Miladinovic, la prima persona dichiaratamente transgender nella storia jugoslava.
Nata a Zagabria nel 1958, Merlinka era stata cacciata di casa a vent’anni. Aveva vissuto in una Belgrado risentita e violenta, che nel decennio degli anni Novanta passava dall’essere la capitale di una federazione da venticinque milioni di abitanti all’essere una città in macerie e in mano al crimine organizzato. A Belgrado, Merlinka scriveva la sua autobiografia, uscita nel 2002, recitava e dava da mangiare ai cani randagi. La sua fine fu atroce e violenta come quella della Jugoslavia in cui era cresciuta: venne soffocata e presa a martellate. Il suo corpo, occultato dagli assassini, venne ritrovato solo un mese dopo la morte. Nessuno è mai stato condannato per il suo omicidio. La rassegna di cinema LGBTQI+ che dal 2009 si tiene a Belgrado con cadenza annuale si chiama “Merlinka Festival” per ricordarla.
Sempre nel 2009, il 26 marzo, il Parlamento serbo ha approvato una legge unificata che vieta, tra le altre cose, la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e del genere. La legge è ancora in vigore eppure, nell’agosto 2022, il governo di centrodestra di Aleksandar Vucic ha cancellato l’Europride che si sarebbe dovuto tenere a Belgrado per “ragioni di sicurezza”, cedendo alle pressioni della comunità ortodossa e dell’estrema destra.
Le elezioni che si sono tenute il 17 dicembre hanno confermato, in mezzo alle grandi proteste di piazza che sono seguite alle accuse di brogli, il governo di Vucic e della primo ministro Ana Brnabic, con le loro posizioni in perenne oscillazione tra timida apertura all’Ue e tradizionalismo filorusso. Il Partito progressista serbo di cui entrambi fanno parte, a dispetto del nome, è un partito conservatore. Gli atti di violenza omofoba, come la devastazione della sede del Belgrade Pride nella notte del 7 gennaio, continuano nonostante la legge che dovrebbe prevenirli.
«Questo è un Paese in cui il primo ministro, Ana Brnabic, è una donna dichiaratamente lesbica e allo stesso tempo dichiaratamente conservatrice. Le contraddizioni sono moltissime», dice il fotografo serbo Aleksandar Crnogorac, che ha vissuto in Italia, Francia e Svizzera e si è dedicato per anni a fotografare le comunità queer di tutta Europa. Dal 2018 è tornato a Belgrado, e per il suo progetto “Trans Balkan” ha incontrato, fotografato e intervistato più di cento persone trans provenienti da tutti i paesi balcanici.
L’atteggiamento delle autorità e della società civile è sempre stato contradditorio anche nei confronti delle persone trans: dal 2011 gli interventi chirurgici per il cambio di sesso sono autorizzati e addirittura coperti dal piano statale di assicurazione medica di base (in modo parziale: il 65% del costo totale dell’operazione). Una legislazione molto progressista, soprattutto se comparata con quella dei paesi confinanti, che è il risultato di anni di campagne di attivismo e sensibilizzazione da parte delle associazioni LGBTQIA+. Nonostante ciò, fino al 2019, sopravviveva nell’ordinamento legale il pregiudizio che riduce il genere al sesso biologico. Difatti, le persone transgender potevano cambiare legalmente il loro genere solo se si sottoponevano a un intervento chirurgico di falloplastica o vaginoplastica: pratiche invasive e costose, a cui molte persone trans non hanno intenzione di sottoporsi. Un report del 2017 della Ucla evidenziava come il 60% della popolazione serba intervistata fosse a favore di misure contro la discriminazione delle persone trans. Eppure, ancora nel 2023, una giovanissima ragazza trans di nome Noa Miljovev veniva uccisa e il suo corpo veniva ritrovato smembrato a Belgrado. A vent’anni esatti dall’omicidio di Merlinka Miladinovic, e nonostante tutta la legislazione che dovrebbe proteggerle dalla discriminazione e dalla violenza, le persone trans in Serbia continuano a vivere nella paura.
«La prima cosa che le persone trans nei balcani desiderano è essere fisicamente al sicuro, questo è emerso molto chiaramente parlando con loro. La violenza rimane la preoccupazione numero uno, prima ancora dei diritti civili e di quelli politici» evidenzia Aleksandar Crnogorac. Interrogato su quando abbia deciso di concentrarsi sulle persone trans nei balcani, cita la vicenda di Helena Vukovic. Helena era un ufficiale di alto grado dell’esercito serbo prima della transizione, finché nel 2015 non aveva annunciato pubblicamente la sua identità di donna trans. La risposta dell’esercito che aveva servito per vent’anni fu il congedo forzato per ragioni psichiatriche e l’esclusione dalla pensione che aveva maturato nei suoi anni di servizio. Aleksandar volle incontrarla, fotografarla e sentire la sua storia: «Dietro di lei, nella foto, c’è la sua uniforme militare. Trans Balkan è nato così, da questo desiderio di mostrare quanto sono diverse le vite e i percorsi delle persone trans: ci sono persone giovani, vecchie, ricche, povere, educate, non educate, di tutti gli orientamenti politici, atee e religiose».
Tra i ritratti scattati da Aleksandar c’è quello di Brankica, nata nel 1937 in un villaggio della campagna serba, che solo nel 1995 è riuscita a completare la sua transizione e che ha dovuto vendere più di metà della terra che possedeva per pagare l’operazione chirurgica in Germania. «Quando sono tornata a casa, nessuno mi ha rivolto la parola per tre anni», dice nell’intervista rilasciata ad Aleksandar, «Ma non importa, rifarei tutto daccapo, il mio unico rimpianto è non essermi operata prima». C’è Kristina Ferarri, l’attrice protagonista del film di autofiction “Kristina”, che il regista Nikola Spasic ha presentato, tra gli altri, anche al Torino Film Festival nel 2022. Nel film, sobrio e delicato, pieno di inquadrature lunghe e dialoghi sottovoce, Spasic racconta le difficoltà di una persona trans che cerca di riavvicinarsi alla fede e alla religiosità. C’è Igor, un uomo trans serbo, che dice: «La mia identità non si esaurisce nell’essere un uomo trans, sono anche una persona che ha sogni, paure, punti di forza, di debolezza, idee, desideri, successi e fallimenti». Igor tocca un nervo scoperto quando evidenzia che «Anche le persone trans sono figlie di qualcuno, anche noi abbiamo un’etnia».
Interrogato sulla possibilità che il suo lavoro possa favorire il dialogo tra le diverse etnie e nazionalità dei balcani, ancora profondamente contrapposte dopo la stagione di guerre e violenze etniche degli anni Novanta, Aleksandar risponde: «Io credo di sì, o almeno lo spero. Uno scherzo ricorrente è che, comunque, il serbo e l’albanese facevano l’amore anche durante la guerra in Kosovo. Il nuovo progetto su cui sto lavorando, che si chiama Balkan Love, è una serie di ritratti e interviste a coppie di etnia mista. Mi dicevano tutti: non troverai mai una coppia albanese-serba. Invece c’è, certo che c’è». L’unica, brevissima dichiarazione che Kristina Ferarri ha deciso di inserire a corredo del suo ritratto in Trans Balkan è “Make love, not war”. Pronunciata in Serbia, la frase è meno banale di quanto sembri.
Nella foto in apertura: marcia Pride a Belgrado, nonostante il governo di Vucic avesse vietato l’Europride, 17 settembre 2023 (Bojan Cvetanović wikimedia)