In tour nelle sale italiane, distribuito da Lo Scrittoio, in collaborazione con Kama Productions, La pitturessa di Fabiana Sargentini è un originale ritratto d’artista di Anna Paparatti, straordinaria protagonista degli eventi della galleria romana d’arte contemporanea L’Attico, crocevia di artisti ed espressioni avanguardistiche, che si distinse negli anni Sessanta e Settanta per la sua vivacità e i suoi slanci innovativi. Presentato in anteprima nella sezione ‘Freestyle Arts’ all’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, il film racconta, attraverso uno stile immediato, rigoroso e, al contempo, delicato, le vicende più intime e private di Anna Paparatti, madre della regista, il suo rapporto con la pittura e il mondo dell’arte, dall’incontro con Julian Beck e il Living Theatre nel 1965, alla storia d’amore con Fabio Sargentini – fondatore nel 1957, insieme al padre Bruno, de L’Attico -, di cui è stata storica compagna, fino alla nascita di sua figlia, ai viaggi in India e alla recente collaborazione con Dior.
Fabiana, come nasce La pitturessa?
La pitturessa nasce da un evento straordinario, ed è stata la prima volta che i fatti hanno richiamato l’urgenza di fare un film: Anna Paparatti, mia madre, ha ricevuto, a ottantacinque anni, la proposta, da parte della direttrice artistica di Dior Maria Grazia Chiuri, di ideare le scenografie per la sfilata primavera estate 2022. Sembrava di vivere, a tutti gli effetti, una favola. E, sempre in quell’occasione, un’ulteriore spinta propulsiva che ha contribuito alla nascita del film, è stato l’incontro con il regista Edoardo Winspeare, al quale Dior chiese di pubblicizzare l’evento attraverso la realizzazione di brevi teaser per Instagram, che vennero girati in un paio di giorni, insieme a un’intervista a Maria Grazia Chiuri. Quello con Winspeare è stato un incontro felice, e fu proprio lui a suggerirmi di iniziare a girare un film su mia madre. È partito tutto da lì. Tra l’altro, avevo ricevuto, qualche anno prima, come regalo di compleanno da un gruppo di amici, una cinepresa Blackmagic, così mi sono detta: “ho i mezzi, ho la storia, possiamo cominciare a girare!”.
Qual è stato il rapporto di Anna Paparatti con la macchina da presa?
È stata, fin da subito, impressionante la disinvoltura di mia madre davanti alla macchina da presa. Lei era totalmente se stessa. E realizzare il documentario ha significato darle voce, e puntare sulla sua storia – personale e artistica – una lente d’ingrandimento.
È molto attuale, contemporanea, questa esigenza di parlare delle donne e, in particolare, delle donne che non hanno ricevuto riconoscimenti, ad esempio per il loro talento artistico. E per me l’urgenza è stata raccontare lei, raccontare questo nuovo, inaspettato e straordinario capitolo della sua vita, che metteva finalmente luce sul suo passato.
Per l’ideazione delle scenografie di Dior, vennero utilizzati i quadri geometrici che Anna Paparatti realizzò negli anni Sessanta. Penso, tra gli altri, a Il grande gioco, a Pop-oca, a Le jeu qui n’existe pas.
Sì, sono i quadri realizzati tra i 25 e i 27 anni, che lo scenografo Luca Sabatelli – conosciuto sul set quando mia madre lavorava come comparsa -, considerò opere molto scenografiche. Vennero così inserite nella scena ambientata in uno studio, probabilmente di artisti, nel film di Luciano Salce Ti ho sposato per allegria (1967), tratto dalla commedia omonima del 1965 di Natalia Ginzburg.
Cosa ha potuto scoprire, grazie al film, di Anna Paparatti, che prima non aveva intuito, conosciuto fino in fondo?
Tantissime cose, molte delle quali non sono confluite nel film. Ma soprattutto, direi, questa capacità di mia madre di rimettersi in gioco e di saper affrontare grandi sfide – come l’ideazione delle scenografie per Dior -, con grandissima serenità. Mia madre è una donna consapevole della propria esperienza, che lei stessa definisce ‘millenaria’. E questo film mi ha anche permesso una rilettura degli equilibri, all’interno della mia famiglia, dove l’interesse era tutto spostato sul ‘protagonista’ maschile: la persona potente e geniale era Fabio Sargentini, mio padre, e noi eravamo delle co-protagoniste, delle figure secondarie. Anche a mia madre, che è stata una figura cruciale nella vita e nella carriera di mio padre – dalla scoperta dell’Oriente alla progettazione e realizzazione grafica di tutti gli eventi artistici -, non è stata mai riconosciuta questa fondamentale collaborazione, nonostante discutessero insieme di ogni aspetto legato agli eventi della Galleria; rappresentavano una vera e propria fucina. Io amo il cinema proprio per questa sua specifica peculiarità di essere un’arte collettiva. La pitturessa è un film che ho realizzato insieme con Simone Pierini, il direttore della fotografia, e con la montatrice Alice Roffinengo. Quando sei da solo puoi immaginare quello che vuoi, ma durante le riprese, e poi durante il montaggio, è come se si mettesse mano, ogni volta, a una riscrittura. Ecco perché non credo nella scrittura dei progetti finalizzati alla realizzazione di documentari. Oggi siamo alle prese con la stesura dei pitch, pagine e pagine per raccontare un progetto che poi, durante le riprese, nascerà giorno dopo giorno. Anche ora che sto elaborando un nuovo progetto, so già che tradirò quello che scrivo, perché il documentario si fa in un altro modo. È un work in progress, e soltanto mentre stai girando puoi capire, sapere, ciò che girerai subito dopo. Non mi piace attenermi a uno schema, prediligo un altro tipo di libertà.
Nel documentario emerge la grande passione di Anna Paparatti per l’arte, e non solo per la pittura (pensiamo all’incontro con Julian Beck e il Living Theatre), e colpisce profondamente quanto la creatività sia stata, nella sua vita, un vero e proprio elemento salvifico.
Completamente. “La pittura mi ha salvato la vita” è quanto spesso ribadisce mia madre. E se pensiamo ai suoi anni giovanili, parliamo di un’epoca lontana, inimmaginabile: mia madre è nata nel 1936 e, a quindici anni, scopre di avere talento per la pittura. Siamo nel 1951. In Calabria. Di ritorno da scuola, si ritirava nella sua stanza e disegnava, dipingeva. La pittura è stata sempre la sua salvezza. Più tardi, quando da Reggio Calabria si trasferisce con la sua famiglia a Roma – dove frequenta l’Accademia di Belle Arti e segue i corsi di Toti Scialoja – si recherà spesso a Terracina, dove resta per ore seduta sugli scogli a dipingere paesaggi. Nel corso degli anni questo aspetto salvifico della pittura sarà sempre più importante.Quando la sua famiglia decide di ritornare in Calabria, per mia madre, all’epoca ventenne, non è stato facile restare a Roma a studiare, fece di tutto per non lasciare l’Accademia. Ha anche lavorato in diverse gallerie d’arte, e poi ha incontrato mio padre. E nel finale del film, io mi chiedo quanto la sua vita sarebbe potuta essere diversa se avesse perseguito da sola la sua passione, ma poi mi rendo immediatamente conto che mia madre non ha nessun rimpianto, e questa è un’altra cosa straordinaria che la contraddistingue. È splendida in questo!
Nel film, La pitturessa si muove all’interno della sua casa, tra le sue tele, i colori. Si muove tra i suoi ricordi, eppure è totalmente immersa nel tempo presente. Anna Paparatti è una donna libera, senza età, con lo sguardo costantemente rivolto in avanti?
Mia madre ha una sua propria leggerezza, anche quando parla di ‘semplicità di arrivo’: lei pensa che la sua pittura arrivi a una semplicità di fruizione, anche se è frutto di un lungo percorso e di un grande lavoro di ricerca. A supportarla è sempre stata una sua propria leggerezza vitale, e anche la libertà. Lei è una donna libera, che ha dovuto affrontare situazioni complicatissime, in epoche in cui la libertà veniva ostacolata, e soprattutto quella delle donne. Lei ha continuato ostinatamente per la sua strada e la sua costanza, la sua perseveranza sono state premiate da questo evento sorprendente – l’ideazione delle scenografie per Dior – che, ribadisco, è solo un capitolo della sua vita. E non ha portato dei cambiamenti sostanziali ma, in qualche modo, ha rimesso ordine nelle cose. Come anche La pitturessa ha rimesso ordine nei nostri equilibri familiari. Anche rispetto a un diverso modo di relazionarsi e di rapportarsi gli uni con gli altri. Nel 2015 mia madre pubblicò un libro, Arte-vita a Roma negli anni ’60 e ’70, che si sarebbe dovuto chiamare La pitturessa, dove ricorda gli incontri importanti della sua vita, e quindi anche quello con Julian Beck del Living Theatre – che per lei fu un vero e proprio mentore -, raccontando di questo periodo unico e intenso trascorso insieme alla compagnia teatrale: pare fosse uscito anche un articolo su L’Europeo, nel quale mia madre viene citata come «la pittrice che ha lasciato i pennelli per unirsi al gruppo Living Theatre».
Quando è avvenuto, invece, il suo incontro con l’arte?
Sono nata nel mondo dell’arte! C’è una scena del film in cui appare una foto d’archivio, in cui, neonata, sono su una sedia da dentista, opera di Gino De Dominicis. Una volta, invece, mi ritrovai vestita con abiti maculati, all’interno di una mostra dove c’era il performer Luigi Ontani, vestito da Tarzan. Era difficile capire chi fosse il performer tra i due! E aneddoti di questo tipo potrei raccontarne parecchi. Per molto tempo, durante l’adolescenza, ho anche rifiutato l’eccentricità di questo ambiente, la sua originalità rispetto agli altri contesti, avrei desiderato essere più ‘scontata’, normale. Ricordo che mio padre passava davanti alla scuola che frequentavo vestito di seta arancione, e il mio migliore amico Simone Pierini informava i nostri compagni, che ne sottolineavano l’eccentricità, che quell’uomo era mio padre. Il mio immaginario è visivo, la mia cura delle immagini, delle inquadrature, è dovuta sicuramente a quella formazione, che è una formazione, per certi versi, involontaria. Passiva, se vogliamo. Per dieci anni ho anche lavorato nella galleria d’arte di mio padre, ma poi ho voluto distaccarmene, non volevo rimanere dentro un perimetro già segnato.
Questo atteggiamento verso la vita di Anna Paparatti, questo piglio coraggioso, combattivo, ostinato, e questa sua straordinaria vitalità, cosa le hanno permesso di conquistare? Sia nel privato che come regista?
Questa sua forza è venuta fuori negli ultimi anni, mia madre sembrava una donna un po’ sottotono, vissuta da noi familiari anche non così ‘vincente’, o energica, o forte. Positiva sì, e anche ironica, ma non così caparbia. Fino a qualche tempo fa lei era un po’ come ‘i quadri dei giochi’ che sono stati nell’ingresso della nostra casa per quarant’anni senza che nessuno li guardasse mai veramente con attenzione. E lei era un po’ come i suoi quadri. Anch’io mi sento colpevole di non averle dato luce, di non averla capita così profondamente. E questa riscoperta è una cosa che mi regala una fortissima carica. Per me, dopo aver realizzato molte cose belle, gli ultimi anni sono stati particolarmente difficili, e con questo film sento di aver ritrovato una mia riscossa, attraverso quella di mia madre.
Nel film, la protagonista, ad un certo punto, dice: «mia madre non mi amava». E l’arte esprime ancora di più la sua forza dirompente, divenendo doppiamente salvifica?
Il rapporto di Anna con sua madre è sempre stato un rapporto conflittuale. Mia nonna non amava tanto mia madre, avrebbe voluto un figlio maschio, tanto che dopo la sua nascita ne ebbe tre, per dimenticare di aver avuto una figlia femmina. Anche mia nonna dipingeva e aveva avuto il privilegio di studiare. Ha vissuto fino a novantuno anni e dipingeva tutti i giorni. Nel 2004 ho realizzato il documentario Di madre in figlia, nel quale ho voluto proprio interrogarmi su questo rapporto tra madre e figlia, perseguendo la ricerca di una ‘linea’ tutta al femminile.
In alcune scene del film, vediamo Anna Paparatti intenta a dipingere, ed è come se venisse fuori questa dimensione interiore di solitudine dell’artista, privatissima e inaccessibile.
Girare il film, e presentarlo in anteprima al Festival di Roma, ha significato immergersi in momenti collettivi di gioia e di condivisione, fortemente contrapposti alla vita di mia madre che è, fondamentalmente, solitaria. Lei dipinge sempre, e questo rappresenta la sua salvezza; quando raggiunge questo stato di profonda concentrazione, lei sta bene. Chi scopre di avere un talento e, soprattutto, in gioventù, penso sia una persona privilegiata ed estremamente fortunata. E mia madre questa fortuna l’ha avuta.