Tonio Kröger non giocava a tennis. Nemmeno Thomas Mann, a dirla tutta. Eppure, il romanzo del premio Nobel per la Letteratura nel 1929 potrebbe spiegare perché Luca Guadagnino è in testa al box office da un paio di settimane con l’ultimo film diretto. Che parla di racchette divelte dall’isteria di stare al mondo. Dove si invecchia a trent’anni. Rischiando, poi, di restare giovane per sempre. Forse, ognuno di noi è «un borghese su strade sbagliate».
Il tempo passa. Senza fretta ma senza tregua, secondo un adagio spagnolo. Anche per chi vince tre Slam su quattro. Campioni o sparring partner non cambia la sostanza. I giorni rimangono contati comunque. Gli stimoli, invece, regalano l’illusione di fermare il momento. Se lo US Opencompleta il mosaico, meglio. È confortante ritirarsi senza rimorsi. Che sono assai peggio dei rimpianti. La donna nasce coach. L’uomo no. Entrambi, però, vorrebbero due vite dentro a un’esistenza sola. Ma mica si può? Sulla scacchiera alcune mosse escludono le altre possibili. Dicono che una relazione somigli a una partita. O viceversa. Zendaya è perfettamente calata nel ruolo. S’è allenata persino con Brad Gilbert, che riportò Agassi al primo posto del ranking mondiale dalla 122a posizione. Andre era scivolato lì. Tra Brooke Shields e Nick Bollettieri.
I numeri fanno statistica. Si sa. Mentre il silenzio di una coppia, sovente, è un cattivo presagio. In fondo quanto vogliamo vivere davvero? Forse, dipende dai flashback. Specie se i giorni comprendono la colonna sonora di Trent Reznor. Tanto, alla lunga la mediocrità prenderà il sopravvento per entropia. Magari Anna Müller diventa imbattibile. Il futuro contempla l’imprevedibile. Ciononostante, meglio i figli di puttana che le acque chete. L’adolescenza precoce delude infinite promesse. Anzi, se qualcosa si smuove andrà storto come Legge di Murphy vuole. Chi si imbruttisce manco se ne accorge. Finendo per negare sordide gelosie. Shakespeare s’è inventato Iago già nel Seicento. L’anticipo nello sport, d’altronde, è tutto.
L’Adidas, per questo, premia i fuoriclasse del domani. In mezzo a richiami anni 80 smaccatamente subliminali. L’acqua Evian, le banane sdoganate da Chang al Roland Garros, i borsoni della Wilson.Non è product placement. Babolat, Prince, Head, fanno proprio sfondo. Come i roll up pubblicitari a fine gara. Coi loghi alle spalle durante le interviste televisive. I videogiochi della Namco e il web hanno mutuato la realtà. Se aggiungi qualcuno sui social, in pratica, gli stai chiedendo il numero. O almeno un contatto. Ovvio, le facce toste fa(ra)nno sempre alla vecchia maniera: un bigliettino di carta scritto a penna e infilato in tasca. Le emergenze notturne sapranno cosa farne.
Il regista palermitano è un intellettuale di sottrazione. Ben consapevole di strafare. L’edonismo “too much” dei suoi personaggi gli appartiene completamente. L’eccesso camp è compreso nel biglietto. Fa Cinema d’autore e di “genere” assieme. Osa e ammicca. Sembra Tomas Milian. Che passava dai set di Bertolucci e Antonioni a quelli diBruno Corbucci, per diventare “Nico Giraldi”. Ricorda l’indolenza passionale dei francesi meno noti, qui, in Italia. Rivette, Cantet, Audiard, Assayas. E François Ozon, soprattutto. Non lascia indifferenti. Mai. Non è da tutti dividere, con stile, senza clamori sguaiati. Riuscirci presuppone una grazia rassegnata/compiaciuta nient’affatto comune. «Fare un film vuol dire eliminarlo da te. E lasciarlo nel mondo. Quindi non esiste la sacralità di dover essere rispettati nell’aver fatto il film È un modo in cui tu ti porti nudo fuori. Quindi se un film non piace, non piace».
Mike Faist e Josh O’Connor sono bravi sul serio. L’archetipo funziona. “Sputati” per la parte. Come la gomma ciancicata da Donaldson. Le grafiche accompagnano il narrato da déjà-vu analogico. Lo spettatore deve adagiarsi complice in poltrona. Assistere allo scambio insistito da fondo campo. Scoprire che nei motel di provincia le grassone difficilmente si fanno sedurre da carte a corto di credito. Le tipe rimorchiate su Tinder, probabilmente, si. Un lungometraggio d’azione sfiora sovente il posticcio. I momenti apicali avversano la noia. Il tie-break prova ad alternare col rimuginio. Quei manga giapponesi d’antan, un filo stucchevoli, la sapevano lunga. La palla di servizio fonde tensione e preludio. Il “braccino” è una metafora di casa. Crollare al secondo turno o al terzo set decifra la cartina di tornasole: magari sei una “fichetta” dal pisello grosso.
L’immediato degli sms è praticamente preistoria. «Abbiamo litigato, non vengo». Art l’avrebbe visualizzato anche coi segnali di fumo. «Nell’avversità dei nostri migliori amici troviamo sempre qualcosa che non ci dispiace». Le massime dei filosofi hanno il dono puntuale dell’attualità. I giovani crudeli devono essere egoisti. È previsto dal copione. L’infanzia rimanda rigurgiti sani e vigliacchi. Una macchina nel parcheggio vuoto basta a fare alcova.
The dreamers, Dramma della gelosia e i Racconti morali chiudono il gioco dei rimandi (in)volontari. Che non escludono il contemporaneo contingente. Roger e Mirka Federer ispirano giovani sceneggiatori di sicuro talento. “I Told Ya” stampato in grigio melànge fa monito e cinegenia. Tra la Stanford University e i corridoi dell’Arthur Ashe. I fast-forward continui instillano dubbi. E nessuna certezza. Il finale aperto, confusamente concitato, allude a una possibile ri-let-tu-ra. Finché ci sono esisto. Devo scegliere? L’interrogativo sospeso nel vigore fragile dell’essere umani. Tra il paradosso del mentitore e la sindrome dell’impostore.
«Riesci a non distruggermi domani?»