“Politiche di austerity e stigmatizzazione dei poveri: analisi e riflessioni critiche”, il testo di Alessandro Scassellati Sforzolini che pubblichiamo per gentile concessione dell’autore, è contenuto nel volume Poverty watch 2024 del Cilap
Le dimensioni quantitative di una stagnazione che sembra irreversibile
Il rapporto annuale dell’Istat sulla situazione del Paese (maggio 2024) ha offerto una fotografia impietosa, sebbene il Pil sia tornato ai livelli precedenti la crisi economica globale del 2007 (ma nel 2024 crescerà solo dello 0,7%): un Paese precario, in cui è cresciuta la povertà a livelli record, è crollato il potere di acquisto, è cresciuto il lavoro povero, i salari sono fermi, è funestato dalle disuguaglianze ed è quasi punitivo per i giovani che studiano e/o lavorano (per cui ogni anno oltre 450mila giovani tra i 18 e i 24 anni abbandonano la scuola prematuramente e circa 55mila se ne vanno via dall’Italia). A questo possiamo aggiungere che il debito pubblico è dato in crescita da qui ai prossimi due anni, fino al 140% del Pil, con un deficit che difficilmente scenderà sotto il 4%. Ciò, mentre il nuovo Patto di stabilità impone regole stringenti per il rientro entro i parametri stabiliti: un punto di Pil all’anno per il debito, mezzo punto per il deficit, che può scendere allo 0,25% nel caso di piani di aggiustamento settennali. Per l’Italia, tutto questo comporterà una cura dimagrante stimata tra i 13 e i 25 miliardi di euro annui.
Per quanto riguarda il tasso di occupazione (numero di persone occupate sulla popolazione tra i 15 e i 64 anni), l’Istat ha certificato un aumento del 2,4% rispetto al 2019, raggiungendo il 61,6% (salito al 62,3% nel luglio 2024), un valore comunque di gran lunga dietro Spagna (65,1%), Francia (68,5%) e Germania (77,1%), lontano quasi dieci punti dalla media europea e fanalino di coda della Ue. Per quanto riguarda i disoccupati, il tasso di inattività per coloro tra i 15 e i 64 anni è il più alto della Ue (33,4%). Come vari analisti ricordano da anni, in Italia il problema è che in pochi lavorano, e in tanti hanno persino rinunciato a cercare il lavoro.
Se tra il 2013 e il 2023 le retribuzioni medie annue sono aumentate del 16% in termini monetari, il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde è diminuito del 4,5%. Tra gennaio 2021 e dicembre 2023 i prezzi al consumo sono aumentati del 17,3%, e le retribuzioni contrattuali orarie solo del 4,7%. Un abisso, per cui il lavoro si è impoverito ulteriormente perché il potere di acquisto dei salari non è stato sostenuto dai dovuti aumenti contrattuali cospicui e tempestivi (il 50% dei contratti nazionali di lavoro è scaduto da almeno tre anni). Da ottobre 2023 le retribuzioni sono aumentate, ma solo perché l’inflazione è diminuita. Una tendenza confermata nel primo trimestre del 2024, ma ancora lontana da un recupero completo di quello che i lavoratori hanno perso. Tra il 2014 e il 2023 la spesa equivalente delle famiglie, in termini reali, è diminuita del 5,8%, con picchi oltre l’8% per le famiglie dei ceti bassi e medio-bassi sulla cui spesa hanno un peso maggiore i beni energetici e alimentari. Intanto, anche la propensione al risparmio è diminuita fino al 6,3% lo scorso anno: si è guadagnato meno e si è dato fondo ai risparmi, senza tuttavia essere in grado di spendere come un tempo.
Nonostante il buon andamento del «mercato del lavoro» che ha registrato tra il 2022 e il 2023 un aumento dell’1,8% in entrambi gli anni, sono cresciuti contemporaneamente i lavoratori poveri («working poor»), quelli che sono in «povertà relativa», anche nei settori «di punta» (quelli del «made in Italy» e della metalmeccanica che lavorano per i mercati esteri) di un’economia ormai basata soprattutto su ristorazione, turismo, grande distribuzione, logistica e servizi poveri ormai fortemente dipendenti dalla manodopera migrante a basso salario. Difatti, sempre tra il 2014 e il 2023 l’incidenza della povertà assoluta tra gli occupati è passata dal 4,9% al 7,6%, e tra gli operai dal 9% al 14,6%. Circa 5,7 milioni di dipendenti guadagnano in media meno di 11 mila euro lordi annui, ma la fascia del lavoro a bassa retribuzione è ancora più ampia: vanno infatti aggiunti oltre 2 milioni di dipendenti con salari medi inferiori ai 17 mila euro lordi annui.
Eurostat ha certificato – con i dati pubblicati nel «Quadro di valutazione sociale» che monitora il progresso sociale in tutta Europa – che il reddito disponibile reale lordo delle famiglie è in calo e l’Italia è fanalino di coda in Europa (Grecia a parte): dal 2008 persi 6 punti mentre la media Ue è aumentata di 10. Se nei 27 Paesi dell’Unione – prendendo come riferimento il 2008, l’anno della grande crisi – la media dei redditi disponibili nell’ultimo anno sale da 110,12 a 110,82, in Italia cala da 94,15 a 93,74. Rispetto alla media europea, dunque, in Italia il reddito disponibile reale risulta inferiore di oltre 17 punti, a dimostrazione di come le condizioni economiche delle famiglie siano gravi e continuino a peggiorare. Per quanto riguarda il reddito l’Italia rispetto al 2008 ha fatto meglio solo della Grecia – qui nel 2022 il reddito lordo disponibile era al 72,1 rispetto a quello del 2008 – mentre resta lontana dalla Germania con il 112,59 nel 2023. La Francia supera il 2008 – 108,75 nel 2022 – mentre la Spagna è ancora indietro (95,85) ma è in fortissima ripresa.
Significa che il miglioramento degli indici del mercato del lavoro non rappresenta di per sé una condizione sufficiente se non è affiancato da qualità e stabilità dei rapporti di lavoro: l’occupazione è uno strumento di protezione dal rischio di povertà solo quando il lavoro è stabile, tutelato, sicuro e dignitoso. Il reddito da lavoro non è più in grado di proteggere le persone e il loro nucleo familiare da un grave disagio economico e sociale. Bisogna aggiungere che nel 2023 oltre la metà degli impiegati a tempo parziale avrebbe voluto lavorare di più (era in un part-time involontario, in sostanza), un fenomeno che colpisce di più le donne, in particolare quelle più giovani, che non arrivano a 10mila euro lordi all’anno, mentre il 34% degli occupati laureati (circa 2 milioni di persone) hanno un inquadramento professionale più basso rispetto al titolo conseguito (sono «sovra-istruiti»). Ci sono poi 3 milioni di contratti a termine, persone che lavorano per 6-8 mesi in media all’anno, un milione di persone che lavorano a chiamata (con una media di 50-60-70 giorni all’anno), e un milione di persone che fa lavoro somministrato, mentre sono aumentate le collaborazioni, gli apprendisti e le partite Iva (spesso finte, inquadrate come dipendenti a tempo pieno senza godere dei «privilegi» dei colleghi regolarmente assunti).
Emerge, dunque, la fotografia di un Paese con un modello di sviluppo che non riesce a stare al passo con le aspettative dei suoi cittadini. Part-time involontari, sotto-inquadrati, contratti a termine, lavoro a chiamata e somministrato, apprendistato dimostrano che la retorica per cui c’è troppa gente che non ha voglia di lavorare è falsa. Sono gli imprenditori che non investono (contribuendo a tenere stagnante la produttività del lavoro), e non investono perché la domanda interna è stata compressa da decenni di austerità, precarizzazione e compressione salariale. La descrizione di un Paese che arretra sul piano del benessere e dove aumentano le disuguaglianze dopo 30 anni di politiche restrittive e austeritarie – giustificate in base al «vincolo esterno» del «ce lo chiede l’Europa», lucidamente e cinicamente teorizzato da Guido Carli (G. Carli e P. Peluffo, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari 1993) – che hanno imposto la più drastica compressione salariale nei paesi Ocse (per cui i salari reali sono rimasti fermi con una crescita simbolica dell’1% a fronte del 32,5% registrato in media nell’area Ocse, mentre tra il 2019 e il 2023 sono calati del 6,9%; solo nel primo trimestre 2024 sono aumentati del 3,4%), con 5 milioni 752mila persone che sono in «povertà assoluta» (il 9,8% della popolazione italiana che ha gravissime difficoltà economiche, sociali, personali; 1,3 milioni sono minorenni), un record dal 2014 quando in tale condizione erano poco più di 4 milioni.
Inoltre, la quota di popolazione in «povertà relativa» è al 22,8%, mentre era al 24,4% nel 2022. Un miglioramento frutto di due spinte differenti: da una parte l’aumento dell’occupazione, dall’altra l’introduzione dell’Assegno unico universale, la principale misura di sostegno per le famiglie che ha debuttato a marzo del 2022, percepito da 7,8 milioni di persone per un importo medio di 1.930 euro l’anno e un costo complessivo di 15,1miliardi, che in base alle elaborazioni fatte dall’Istat da solo ha ridotto dell’1% il rischio povertà. L’attuale governo vorrebbe rivedere l’Assegno unico universale, visto che l’investimento per il 2024 non è stato utilizzato del tutto. Stiamo parlando comunque di un assegno di circa 160 euro mensili per figlio per i nuclei familiari (ne beneficiano oltre 6 milioni di nuclei familiari per un totale di 9.54.9571 di figli). Non si tratta di una misura adeguata alle condizioni e ai bisogni reali delle famiglie, soprattutto quelle numerose, ma sempre di un intervento in base alle disponibilità delle finanze pubbliche e delle scelte dei governi in carica.
Tra l’altro, i dati sulla povertà non colgono ancora in pieno gli effetti della decisione, presa tra maggio e dicembre 2023, dal governo Meloni di restringere l’accesso all’«assegno di inclusione» per i poveri assoluti (una prestazione sociale da 6.000 a 7.560 euro annui presentata come una misura per chi «ne ha davvero bisogno e non per chi potrebbe lavorare e preferisce stare sul divano») e al «supporto lavoro e formazione» per i poveri ritenuti «abili al lavoro» (gli «occupabili») introdotti dalla legge 85/2023 che hanno sostituito il «reddito di cittadinanza», percepito da 1,65 milioni di famiglie e costato 7,8 miliardi. Centinaia di migliaia di famiglie (circa la metà) sono state escluse dai nuovi, più stringenti, criteri di ammissibilità (non bastano più i parametri reddituali e patrimoniali, serve avere anche un anziano o un minore a carico o avere nel proprio nucleo famigliare un adulto con disabilità o svantaggio sociale, per cui molte persone rimangono escluse) e per questo, l’anno prossimo, i dati sicuramente saranno peggiori, come sottolineato da un rapporto della Commissione Europea.
Austerità e stigmatizzazione dei poveri
Cinicamente, il governo Meloni ha deciso di risparmiare alcuni miliardi di euro su povertà, fragilità e disagio, tagliando aiuti, sussidi, esenzioni, sconti a chi non ce la fa, per abbassare l’aliquota Irpef ad un pezzo della classe media, fingendo di ignorare che in Italia una persona su dieci vive in condizioni di povertà assoluta. Povertà che colpisce maggiormente le famiglie numerose, le famiglie operaie, quelle del Mezzogiorno, quelle in affitto, i migranti, in linea con le pesanti diseguaglianze presenti nel Paese. Si è poveri pur lavorando quando le condizioni retributive e di lavoro sono inadeguate, ma il governo ha posto il veto ad una legge che fissa il salario minimo legale; si è più poveri se si vive in affitto, ma il governo ha azzerato i fondi per gli affitti e per la morosità incolpevole e non investe nell’edilizia pubblica. E si è più poveri nel Sud, ma con l’autonomia differenziata introdotta dalla legge n. 86/2024 le diseguaglianze sono destinate a crescere inesorabilmente.
Il neoliberismo è associato a politiche economiche pubbliche improntate all’austerità, con tagli alle tasse per ricchi e imprese che producono la contrazione delle entrate pubbliche, creando una pressione irresistibile per i tagli alla spesa pubblica (una tattica nota come «affamare la bestia», perché inesorabilmente produce la crisi fiscale dello Stato). D’altronde, Ronald Reagan e Margaret Thatcher avevano sostenuto che «lo Stato era il problema e che i mercati erano la soluzione». Pertanto, prevale l’idea che, volendo continuare a perseguire politiche economiche nazionali neoliberiste improntate al rigore e all’austerità, non ci siano sufficienti risorse per tutti e che quindi, nel lavoro come nell’attribuzione di sussidi sociali, alloggi popolari, accesso agli asili nido, debbano venire «prima gli italiani», ossia il «nostro» popolo, quello considerato «vero» sul piano razziale-etnico-linguistico e dal quale dovrebbe essere possibile esigere una lealtà pressoché assoluta, escludendo e deumanizzando coloro che non sono considerati «degni», «integrabili» ed «assimilabili»: migranti, poveri considerati abili al lavoro, «fannulloni», «parassiti sociali», rom, sinti e camminanti, agitatori sociali, «anti patrioti», musulmani, ebrei, femministe, LGBTQIA+, comunisti, anarchici, etc.. Mettere crudelmente alla berlina (e anche in galera), disprezzare, odiare e disumanizzare le minoranze etniche, i «furbetti» del welfare, i «fannulloni», i «divanisti», gli «scrocconi», gli immigrati «clandestini» e i «vagabondi» senza casa, i meridionali è diventata una forma di soddisfazione pubblica attraverso la quale si manifestano sentimenti diffusi di risentimento, ansia, angoscia, paura, rabbia e disgusto contro i deboli e i fragili che sono visti solo come un peso per i cittadini «laboriosi» e «rispettosi delle leggi» del ceto medio bianco.
L’atteggiamento basato su un giudizio «morale» (o meglio moralistico e ideologico) del governo Meloni verso i poveri e la povertà – fare la guerra ai poveri, piuttosto che alla povertà – è coerente con gli esiti del percorso politico-culturale bipartisan che è stato fatto dai governi (sia di centro-destra sia di centro-sinistra dominati da tecnocrati) dei Paesi occidentali per rilanciare il capitalismo negli ultimi 40 anni, con il passaggio dal paradigma di regolazione fordista-keynesiano (basato sul «compromesso tra capitale e lavoro» di stampo socialdemocratico) a quello neoliberista (basato sulla centralità degli «animal spirits» del libero mercato), un passaggio che ha comportato la trasformazione del welfare in workfare, «uno Stato sociale conservatore orientato al lavoro», come lo definisce Roberto Ciccarelli (L’odio dei poveri, Ponte alle Grazie, Milano 2023), e che si è concretizzato in un programma economico volto a ridurre tasse, salari, tutele, diritti, spesa sociale e servizi pubblici, privatizzando imprese, servizi e beni pubblici, deregolamentando i mercati, a cominciare da quello finanziario e da quello del lavoro, creando un sistema profondamente instabile che nei Paesi occidentali ha fatto emergere nuove povertà (i working poor).
I governi hanno inizialmente inquadrato i poveri come vittime di una «cultura della povertà» (interpretata negativamente in termini di dissolutezza morale, sociale ed economica) dalla quale avrebbero dovuto dimostrare di essere in grado di uscire o sarebbero stati considerati responsabili delle loro condizioni precarie e moralmente degradate, e quindi non meritevoli dell’aiuto dello Stato. Sull’onda di campagne mediatiche contro le «regine del welfare» che vivevano alle spalle dell’assistenza governativa (ridefinita «assistenzialismo») e si rifiutavano di lavorare, si è via via affermata l’idea che i poveri sono immeritevoli, che la povertà se la sono procurata da soli, che la povertà è in qualche modo auto-inflitta, colpa dell’individuo e dei vizi che lo rendono incapace di essere produttivo, e non il risultato del funzionamento della società capitalistica, un dato strutturale e una condizione necessaria del suo sviluppo. In questo modo, un problema sociale, la povertà, e le disuguaglianze vengono trasformate in delitti morali i cui colpevoli sono gli stessi soggetti che patiscono gli effetti nefasti del capitalismo.
Dal welfare al workfare
Così è stato a partire dalla seconda metà degli anni 90 che è stato introdotto il cosiddetto «welfare to work» o «workfare», frutto di un complesso lavoro tecnico, giuridico e amministrativo e basato su politiche di «disciplinamento», spesso punitive e degradanti per le persone in povertà (definite di «inclusione attiva» e basate sulle «politiche attive del lavoro»: programmi obbligatori di formazione professionale e di inserimento lavorativo), invece di puntare su un welfare state (del «benessere») efficiente, ben finanziato (con contributi prelevati dai salari e dagli utili delle imprese) e universalistico che garantisse i diritti sociali e includesse anche un reddito di base universale e incondizionato, sganciato dalla produzione del lavoro-merce in modo da garantire a ciascuno il diritto di esistenza indipendentemente dal lavoro. Comunque, inizialmente, il processo di «inclusione attiva» prevedeva quattro misure: avviamento al lavoro con percorsi di inserimento e sostegno ad un «lavoro dignitoso»; integrazione sociale per chi era in grado di sostenerli; un reddito adeguato per coloro che in un dato momento della vita non erano in grado di lavorare; accesso ai servizi. Queste sono state le basi a partire dal 1992 che hanno portato all’anno europeo di lotta contro la povertà e l’esclusione sociale.
A distanza di oltre 30 anni, ora la persona povera deve espiare il proprio peccato, riabilitarsi, trasformarsi in una persona «meritevole», adeguandosi alle norme comportamentali di chi la vuole diversa (attiva e imprenditoriale), la vive come un pericolo, un fastidio, una zavorra. Il workfare incarna un programma di pedagogia conservatrice e autoritaria e per questo l’enfasi è stata messa sulla responsabilità personale e sull’opportunità di trovare un (qualsiasi) lavoro anche in «progetti di utilità alla collettività». «Meritevole» è solo la persona che vuole lavorare, che mostra la volontà di impegnarsi a diventare operosa, che si presta alle condizioni dell’occupabilità. Oppure quella povera strutturale, inoperosa con giusta motivazione (coloro che sono nel bisogno «senza alcuna colpa da parte loro», vittime fragili di circostanze al di fuori del loro controllo), i «poveri buoni» per età, malattia, handicap. Ai poveri considerati abili al lavoro, che sono coloro che dal neoliberismo e dalle sue crisi hanno subito il senso della perdita di una posizione e identità sociale, si rivolge il potere che agisce con politiche che li rendono comunque ostaggi del bisogno e che mirano a trasformarli in «forza lavoro», in «capitale umano» da immettere nella moltitudine dei lavori e delle vite precarie (nel mercato del lavoro esattamente così com’è), sebbene nei testi delle risoluzioni del Parlamento europeo si parli sempre di «lavoro dignitoso». Da questo punto di vista, il workfare non serve ad eliminare la povertà, ma a governare la vita dei poveri attraverso la loro cooperazione forzata, ottenuta tramite un regime di ricatto nelle forme di contrattazione promosse dalle politiche attive del lavoro.
L’idea alla base del welfare-to-work è di far entrare nuovi lavoratori nel mercato del lavoro, in modo che il mercato stesso possa risolvere il problema della povertà di milioni di persone e famiglie. Un modello di intervento teso a risparmiare risorse finanziarie pubbliche perché non c’è più bisogno di assistenza in denaro, dato che le persone dovrebbero ottenere un reddito (pur anche molto basso) attraverso un lavoro o diventando imprenditori (di sé stessi), e questo dovrebbe anche far crescere l’economia, perché ci sono più lavoratori e (micro)imprese. Un modello in cui il lavoro ha il primato sulla cittadinanza, è lo strumento che consente l’accesso al benessere, se lo si rifiuta si perdono diritti. La persona che rifiuta le offerte di lavoro perde il diritto al sussidio, bollata come «fannullone», una persona che preferisce rimanere inoccupata. Una persona da biasimare e odiare, perché campa sulle spalle e a spese della comunità.
La diffusione dell’idea che con il welfare si stesse spendendo troppo denaro pubblico è avvenuta nel contesto di una continua stigmatizzazione del welfare come un programma per la «dipendenza» e la «cultura della povertà». Questo clima politico-culturale ha consentito ai governi di cancellare progressivamente i sussidi del welfare per le famiglie a basso reddito, condannando milioni di persone e famiglie alla povertà.
I nuovi programmi sono via via diventati più «leggeri» (sempre più ridotti all’osso), per cui a malapena raggiungono i più poveri e si sono finora dimostrati del tutto inadeguati ad operare per liberare le persone dalla povertà. Programmi che inizialmente avevano creato un debole obbligo per alcuni beneficiari di impegnarsi in un programma di formazione, istruzione e lavoro. Dalla seconda metà degli anni ’90 questo collegamento è stato trasformato in un requisito molto più stretto di lavoro (workfare), costringendo i poveri ad entrare nel mercato del lavoro in modo che possano guadagnare «una busta paga, non un assegno sociale».
Le argomentazioni adottate discendono direttamente dalla teoria economica neoclassica secondo cui dei sussidi ridurrebbero l’incentivo per i disoccupati a cercare lavoro, perché potrebbero godere di un reddito seppur modesto, rifiutando la fatica del lavoro a cui sono costretti dalla propria condizione sociale. Ma l’obbligo al lavoro, in cambio di un sussidio, li ha trasformati da disoccupati poveri in poveri al lavoro (working poor). I programmi hanno via via anche limitato il numero di adulti esenti, ridotto la gamma di attività riconosciute per poter beneficiare delle prestazioni, escludendo come qualificazione gran parte della formazione e dell’istruzione in aula a favore del «training on the job», e stabilito rigidi standard di ore lavorate. In linea con l’enfasi sulla «responsabilità personale», hanno anche stabilito limiti massimi di tempo per il ricevimento di sussidi e aiuti, ristretto l’ammissibilità e permesso allo Stato di sanzionare più duramente i beneficiari per non conformità.
La promessa di una punizione risponde al progetto di trasformare la vita del povero disoccupato in quella di un soggetto che sia al più presto possibile «occupabile», disponibile a rispondere alle esigenze dell’impresa in ogni momento, senza la preoccupazione di estendere il progetto a più sfere di vita in modo da valorizzare anche le altre risorse – affettive, identitarie, della soggettività, relazionali, valoriali – di cui le persone dispongono. D’altra parte, per essere veramente efficace l’intervento individualizzato andrebbe accompagnato da interventi collettivi che concentrino nei quartieri e nelle aree più povere una pluralità di azioni: politiche sociali, del lavoro, urbanistiche, ambientali, di tutela della salute, di istruzione, per l’infanzia e i giovani.
L’altro grande cambiamento nel passaggio dal welfare al workfare è stato la struttura di finanziamento. Quella open-ended del welfare è stata sostituita con una sovvenzione fissa per il programma destinata a non aumentare nel corso degli anni per l’adeguamento all’inflazione (e quindi destinata a ridursi col tempo). Alle Regioni è stata data la possibilità di spendere una certa somma del loro denaro da abbinare ai fondi europei e nazionali.
L’idea di «mettere al lavoro» e a valore i poveri in cambio del loro accesso al welfare è ormai vecchia, radicata nella convinzione che le persone diventano povere a causa di un qualche difetto o «tara» personale di tipo morale (deficienza mentale, pigrizia, mancanza di ambizione e capacità di adattarsi alla disciplina della vita lavorativa ed economica, irresponsabilità, mancanza di adeguati valori familiari, etc.), e quindi sono da biasimare e non meritano gli aiuti del governo («se un uomo non lavora, non mangerà»). Un approccio al tema della povertà che ha come precedente storico l’introduzione delle New Poor Laws o Poor Law Reform Act (1834) nel Regno Unito con l’abolizione di ogni opera caritativa (fortemente voluta dalla regina Elisabetta I nel 1603) e la creazione di «workhouses», istituzioni totalizzanti che combinavano disciplina e lavoro, destinate ai «poveri non meritevoli», ma abili al lavoro. Le «workhouses» erano lo strumento che doveva motivare i contadini poveri costretti ad abbandonare i loro campi agricoli a cui erano legati da secoli a seguito delle «enclosures», le recinzioni e privatizzazioni dei beni comuni, attraverso forme di sottomissione al lavoro sempre più estenuanti e massacranti, spingendoli a lavorare per bassi salari nei nuovi opifici industriali e a trasferirsi nelle città dove erano presenti maggiori opportunità economiche e lavorative. I poveri «oziosi», che si opponevano al lavoro, venivano invece reclusi in questi tetri opifici-prigioni dove, in cambio di cibo e alloggio, sarebbero stati ricondotti alla morale redentrice del lavoro.
Stato, mercato e povertà
Dagli anni 90 le forze politiche di centro-sinistra – come i New Democrats di Clinton, il New Labour di Tony Blair e Gordon Brown, con la loro Third Way in Gran Bretagna, e la Spd di Gerhard Schröder, con il suo Neues Modell Deutschland in Germania – credevano ancora in un ruolo dello Stato, ma quello Stato doveva essere reinventato per agire da catalizzatore nel creare collegamenti tra il settore pubblico e privato (creare «market-oriented solutions») e raccogliere le opportunità e i benefici derivanti dalla globalizzazione economica, considerata un fenomeno ineluttabile e irreversibile, e dalle nuove tecnologie digitali. Più precisamente, l’obiettivo era trasferire al settore privato (a quella che allora veniva chiamata «nuova economia») il lavoro che un tempo era di competenza del settore pubblico: il mercato avrebbe potuto svolgere le funzioni che un tempo venivano svolte dal welfare sociale, dando alle persone ciò che meritano. Il messaggio divulgato era che se tutti hanno le stesse possibilità di competere (pari opportunità, ma non uguaglianza di condizioni e, meno che mai, uguaglianza nei risultati), i mercati premiano il «merito» e il «duro lavoro» e ognuno può realizzare «i propri talenti» e sogni (lo slogan preferito di Barack Obama era «you can make it if you try», riecheggiando una famosa canzone del musicista giamaicano Jimmy Cliff).
L’idea era che ci si potesse rivolgere al mercato, al settore privato – ad esempio, attraverso la microfinanza, il terzo settore, la filantropia e lo sviluppo bancario di comunità – per realizzare i tradizionali obiettivi liberali che erano stati lasciati allo Stato sociale nelle precedenti iniziative, come il New Deal o la Great Society o la socialdemocrazia europea. Per cui, a seguito di questa spinta politica «riformatrice» (o meglio contro-riformatrice) di «populismo di mercato», in tutti i paesi occidentali lo Stato ha abbandonato ogni pretesa di difendere la società dal mercato e ha facilitato il consolidamento di un mercato privatizzato dei servizi – con forme di welfare community, aziendale, territoriale, di prossimità e filantropico che si muovono lungo le direttrici pubblico-privato e nazionale-locale – dentro il quale il ruolo dello Stato si limita in gran parte (se va bene) ad essere l’ente pagatore. Un «welfare mercantile» fatto di sussidi ad personam, esenzioni, voucher, bonus, card per le spese alimentari, buoni acquisto (pasto, carburante, etc.), polizze sanitarie integrative, previdenza complementare, interessi agevolati su mutui e prestiti, asili nido, campi scuola, borse di studio e rimborsi di spese scolastiche che spesso si sovrappongono e sono temporanei. Nonostante le grandi promesse e aspettative, questo «welfare mercantile» appare decisamente inadatto a rispondere ai bisogni e a garantire l’esigibilità dei diritti in una società sempre più disuguale e frammentata. Si dice di voler metter «le persone al centro», ma non si pensa a come definire i diritti collettivi, sociali ed individuali da rendere esigibili per superare diseguaglianze ed esclusioni. Le si mette invece al centro del «mercato dei servizi» costringendole a scegliere o destinando loro voucher o sussidi per l’acquisto di beni e/o servizi.
Allo stesso tempo, c’era l’idea di rendere lo Stato stesso più efficiente: snellire la burocrazia a favore del «cittadino-consumatore» e portare gli strumenti di mercato – sono gli anni della rivoluzione informatica e del tecno-utopismo che la circondava – nelle pratiche effettive di governo al fine di utilizzare ciò che è plausibile all’interno del settore privato e rendere lo Stato più efficace. Non a caso, l’amministrazione Clinton promosse il Telecommunications Act del 1996 che ha sostanzialmente autorizzato la rivoluzione di Internet ad essere libera da qualsiasi seria regolamentazione pubblica, instaurando l’egemonia delle aziende della Silicon Valley.
Si è quindi proceduto ad effettuare sempre maggiori tagli pubblici e privati al welfare nello stesso periodo nel quale milioni di donne cercavano di entrare nel mercato del lavoro con l’obiettivo di emanciparsi, sostenere il reddito delle loro famiglie (il cosiddetto «doppio reddito familiare») e acquisire o mantenere gli standard di vita della classe media. E questo vale anche per il numero crescente di madri singole (principali vittime del forte «gender gap» lavorativo e salariale). Con il passaggio al paradigma di regolazione neoliberista, la progressiva precarizzazione del lavoro, l’erosione dei diritti e dei salari reali dei lavoratori, la necessità di dover svolgere più lavori contemporaneamente per cercare di sfuggire alla condizione infernale di working-poor, sono fattori che hanno ridotto il tempo che le donne sono in grado di dedicare al lavoro di cura e alla famiglia, mentre sappiamo che il lavoro domestico, compresa l’assistenza all’infanzia, rappresenta un’enorme quantità di produzione socialmente insostituibile e necessaria. Ma questo, in una società basata sulla produzione di merci e sulla mercificazione dei servizi (molti dei quali a bassa qualificazione e molto frammentati), di solito non è considerato «vero lavoro» in quanto al di fuori del commercio, del mercato e del lavoro salariato. Il lavoro di cura, svolto soprattutto dalle donne, viene sottovalutato economicamente e svilito socialmente. L’Italia continua ad essere tra i paesi europei con le maggiori disparità di genere nel mercato del lavoro. Se una donna vuole essere alla pari con gli uomini, è meglio trovarsi a vivere e lavorare in Finlandia, Belgio, Danimarca, Francia, Lettonia, Lussemburgo o Svezia, gli unici Paesi al mondo a sancire l’uguaglianza di genere nelle loro leggi.
L’effetto dei tagli alle spese e ai servizi sociali da parte dei governi, dunque, è stato di fatto uno scaricamento del peso del lavoro di cura su donne, famiglie, comunità e municipalità locali, allorquando è progressivamente diminuita la loro capacità di svolgerlo in modo adeguato, per mancanza di tempo e/o risorse umane e finanziarie. Questo ha portato ad una generalizzata crisi della riproduzione sociale, testimoniata dal crollo degli indici di natalità in tutti i Paesi ricchi, e ad una nuova organizzazione dualistica della stessa riproduzione sociale, mercificata per coloro che possono permetterselo e privatizzata per quanti non possono farlo. Alcune componenti femminili della seconda categoria (oltre a donne immigrate dai Paesi poveri) forniscono lavoro riproduttivo e di cura per coloro che appartengono alla prima in cambio di bassi salari, molto spesso senza benefits, ferie pagate o congedi per malattia e senza il sostegno di un sindacato, o sono impiegate nell’assistenza sanitaria, il settore del lavoro in più rapida crescita in quasi tutti i Paesi occidentali. In Italia, sette lavoratori su dieci che si dedicano all’assistenza degli anziani sono stranieri. La metà – circa 380 mila – proviene da Romania, Ucraina e Filippine.
Nuova composizione sociale e incremento delle disuguaglianze
A distanza di circa 40 anni dalla svolta neoliberista, l’enfatizzazione del pericolo per l’ordine pubblico e, quindi, la criminalizzazione dei poveri, delle minoranze e dei migranti (un «capro espiatorio» particolarmente conveniente, dato che in quanto non votanti i loro interessi possono essere ignorati in sicurezza) attraverso l’azione repressiva dello Stato contribuisce a celare le contraddizioni sulle quali si sostiene il sistema economico, quali la precarietà lavorativa, la disuguaglianza economica, l’individualizzazione del rischio e la mancanza di solidarietà sociale. In questo modo, non solo viene disinnescato il potenziale di protesta politica presente in questi gruppi, ma viene costruita una rappresentazione politico-culturale che trasforma i bisogni che nascono da questioni sociali in problemi securitari, ossia da affrontare attraverso metodi e strumenti repressivi di ordine pubblico («law and order»), alimentando le «passioni tristi» contro le «classi pericolose».
In concreto, i cambiamenti imposti dal «riformismo dall’alto» guidato dai governi non sempre hanno prodotto l’incanto e la libertà propagandati. Oggi, possiamo dire che solo l’1% (l’oligarchia) è diventato sempre più ricco, mentre per tutti è aumentato lo stress legato ad una condizione di lavoro e di vita più precaria. Soprattutto, il nuovo modello di capitalismo flessibile neoliberista ha voluto dire meno welfare (meno universalismo, più selettività nei diritti di accesso e workfare), maggiore precarietà e salari (reali) più bassi per le fasce dei lavoratori più deboli e vulnerabili (giovani, donne, anziani, persone meno qualificate e di etnie minoritarie, disabili, immigrati), dequalificazione di ampi segmenti dei lavoratori, aumento dell’intensità del lavoro più che della sua produttività, diminuzione dei diritti e della sicurezza dei lavoratori, imposizione di nuove flessibilità in termini di dove lavorare, con quali compiti, a quali condizioni lavorative, quanto e quando lavorare, e così via.
Il sogno di un capitalismo flessibile è diventato un incubo per molti lavoratori. Come esemplificato dal film «Sorry we missed you» (2019) di Ken Loach, c’è una nuova sottoclasse di lavoratori, come quelli della «gig economy», che sono gestiti non da esseri umani, ma da un’app e dai suoi algoritmi, un «taylorismo digitale» che caratterizza il capitalismo delle piattaforme. Per loro i tempi di lavoro sono diventati imprevedibili, senza orari definiti, per cui sono costretti a fare i salti mortali per organizzare le loro vite e quelle delle loro famiglie. Nella «gig economy», i lavoratori sono liberi di fornire il proprio lavoro a più app, ma in queste disposizioni mancano i fattori di sicurezza – il congedo per malattia, le pause, la pensione – che esistevano nel vecchio mondo del lavoro permanente a tempo pieno.
Ne è risultata una struttura fortemente segmentata e differenziata dei mercati del lavoro, assai diversa da quella della fase Fordista/Keynesiana, e che ha ridotto ai minimi termini i lavoratori dei vecchi settori centrali con contratti di lavoro permanenti a tempo pieno (falcidiati dai processi di crisi aziendali, delocalizzazioni, automazione e digitalizzazione della produzione) e il potere contrattuale dei lavoratori specializzati, accentuando allo stesso tempo la vulnerabilità dei diritti dei gruppi meno qualificati e più svantaggiati – persone con bassi livelli di istruzione, donne, giovani, anziani, minoranze etniche, migranti, portatori di handicap – i cui salari tendono ad essere schiacciati verso il basso anche come conseguenza dell’esistenza di varie forme di sistematico razzismo e pregiudizio normativo ed istituzionale. Spesso neoliberismo e razzismo strutturale operano in sinergia per frammentare la classe lavoratrice e negare alle minoranze razziali l’accesso ai segmenti più elevati del mercato del lavoro (escluderli dai lavori meglio pagati e dall’informazione/formazione necessaria per eseguirli).
Nei paesi ricchi, salari stagnanti e peggiori condizioni di lavoro sono stati accompagnati da una enorme crescita dell’indebitamento privato e dei consumi a buon mercato («lo sconto cinese») ottenuti grazie alla «globalizzazione» economica e la finanziarizzazione della vita delle persone comuni (il sistema di «accumulazione tramite spoliazione» di cui parla David Harvey in «Cronache anticapitaliste. Guida alla lotta di classe per il XXI secolo», Feltrinelli, Milano 2021) e la gestione da parte delle global corporations di imponenti flussi di merci prodotte da «supply and value chains» in larga parte articolate nei Paesi emergenti e poveri dove la forza lavoro viene sovra-sfruttata in cambio di bassi salari.
Sono stati così riconfigurati gli assetti socio-economici esistenti alla fine degli anni 70 in modi che non hanno rappresentato solo delle risposte alla crisi dell’accumulazione capitalistica o alla rinascita del potere di classe dei detentori di capitale dopo gli avanzamenti dei movimenti sociali, operai e sindacali degli anni 60 e primi 70, ma sono state anche parte di un progetto di cambiamento antropologico, intellettuale, politico e ideologico teso a riprogrammare la governabilità liberale, ridefinendo i rapporti tra Stato, democrazia, società ed economia.
Mutazione antropologica, darwinismo sociale e individualismo metodologico
È divenuta egemone una narrazione incentrata su un «darwinismo sociale» basato sulla lotta incessante per l’esistenza e sul trionfo del mercato e dell’individuo sulla società – «la società non esiste, ci sono gli individui, uomini e donne, e ci sono le famiglie», sosteneva Margaret Thatcher nel 1987 – e sulla statualità che sul piano politico-culturale ha trasformato ogni cittadino in un io-legislatore che, quando esercita la sua potestà, non è tenuto a interrogarsi sul «bene comune», sulle ricadute delle sue decisioni sull’insieme della comunità nazionale o globale che sia, poiché gli si richiede di essere laborioso e di calcolare costi e benefici delle sue scelte soltanto per sé e quando va bene per la sua famiglia, ristretta «tribù» e fazione politica o piccola comunità locale (il quartiere, la scuola, il posto di lavoro vicino a casa). Le persone sono state incoraggiate a concepirsi più come consumatori (alla continua ricerca di beni e servizi a prezzi sempre più bassi, mossi da apprensione per la propria esistenza e trascinati da un’offerta sempre nuova e più ampia di beni di consumo, imposti come obbligo sociale) che come produttori e cittadini che contribuiscono al bene comune e ottengono un riconoscimento per questo. Vengono così privilegiate soluzioni privatistiche anche a problemi che hanno una dimensione indiscutibilmente pubblica, come la sanità, l’istruzione, la sicurezza. Ha prevalso anche l’idea che la politica sia una questione e uno spazio di espressione personale, che i cittadini siano solo attori individuali che fluttuano nello spazio senza un vero tessuto connettivo e il capitalismo riempie il vuoto e tutto, compresa la politica, diventa un’arena per affermare il proprio status e la propria identità individuale. Per cui, l’individuo tende a non concepirsi come parte di una comunità più vasta e i suoi diritti non possono essere sacrificati neanche in nome della sicurezza collettiva. Una libertà individuale assoluta, senza fraternità (cooperazione e solidarietà) né uguaglianza, che finisce per mettere in discussione i principi del 1789.
Una mutazione antropologica che ha travolto empatia, sensibilità sociale, cooperazione, solidarietà e qualsiasi dimensione collettiva, favorendo il prevalere di una mentalità individualista, egoista, cinica e psicotica. Si è così aperta la strada sia per movimenti politici – dai suprematisti bianchi ai movimenti radicali antistatalisti e anti tasse, ai «negazionisti» della pandemia da CoVid-19 – che promuovono apertamente narrazioni complottiste – ad esempio, quella della «grande sostituzione» della popolazione bianca o quella del «the great reset» del capitalismo che immagina che un’élite globalista abbia cercato di utilizzare il CoVid-19 come opportunità per implementare politiche economiche e sociali radicali come le vaccinazioni forzate, carte d’identità digitali e rinuncia alla privacy e alla proprietà privata – e il rifiuto delle regole (che, a torto o a ragione, sono accusate di attaccare le libertà individuali e frenare lo sviluppo economico) e delle istituzioni che le emanano, sia per la degenerazione delle democrazie liberali in democrazie plebiscitarie, «illiberali» e autoritarie.
La storia dell’economia politica degli ultimi quattro decenni è stata caratterizzata da una guerra di classe tra capitale e lavoro che, come ha sostenuto il finanziere Warren E. Buffett nel 2006, il capitale ha vinto a mani basse (la «contro-offensiva neoliberale»), per cui aveva notato che lui, un investitore miliardario pagava un’aliquota fiscale più bassa della sua segretaria. Questo anche se dopo la crisi del «socialismo reale» le forze politico-culturali della vecchia e nuova sinistra hanno continuato ad alimentare forze e movimenti politici dichiaratamente anticapitalisti, e hanno cercato di immaginare modalità, strategie e pratiche nuove per costruire una società comunitaria e collettiva votata ai «beni comuni», alla giustizia sociale e al benessere generale. Una società che sia capace di contrastare le derive distruttive di una società improntata ad un «individualismo metodologico» sfrenato, alla mercificazione del lavoro e della natura, all’alienazione, all’insicurezza, alla precarietà e alla nevrosi, dovuta agli effetti dell’uber-capitalismo della «gig economy» e del turbo-capitalismo cognitivo sulla vita delle persone.
L’incertezza, la precarietà socio-lavorativa, l’esaltazione dell’ideologia meritocratica e le disuguaglianze economiche creano una maggiore competizione sociale e divisioni, che a loro volta favoriscono la frammentazione delle relazioni sociali (divorzi, aumento delle «famiglie» unipersonali, etc.), l’aumento dell’ansia (sensazione di impotenza, paranoia, angoscia e depressione) individuale e collettiva, della solitudine – il «bowling alone», ossia il «giocare a bowling da soli» evidenziato da Robert Putnam («Comunità contro individualismo. Una parabola americana», Il Mulino, Bologna 2023 [2020]) – della sensazione di catastrofe imminente e di un maggiore stress individuale, e quindi una maggiore incidenza di malattie mentali, disordini alimentari, insoddisfazione e risentimento che portano le persone ad utilizzare strategie di compensazione – uso e abuso di antidepressivi, psicofarmaci, droghe, alcol e comportamenti di dipendenza come shopping compulsivo, gioco d’azzardo, pornografia, dipendenza da smartphone e social media – che a loro volta generano ulteriore stress e angoscia individuale e collettiva. Aumentano le «morti per disperazione», un termine coniato da Anne Case e Angus Deaton («Morti per disperazione e il futuro del capitalismo», Il Mulino, Bologna 2023), che contribuiscono a ridurre l’aspettativa di vita.
D’altra parte, la pandemia da CoVid-19 e la conseguente crisi sociale ed economica hanno dimostrato che il modello individualista è stato il migliore alleato del virus e che la libertà individuale è illusoria, significa poco o nulla senza giustizia sociale, ossia se poi non si ha abbastanza da mangiare, se viene negato un accesso adeguato ad un’assistenza sanitaria, ad un lavoro decente, ai trasporti, all’istruzione, ad un alloggio. La libertà individuale senza limiti significa non doversi prendere la responsabilità per le altre persone – le «vittime», gli «scartati», i poveri, i senza fissa dimora, gli anziani, i bambini, i rom, i disabili, etc. – o per l’ambiente. Molti dei sostenitori di questa «libertà» non cercano di costruire una comunità politica nazionale, ma di essere lasciati soli, di non essere disturbati, anche se ciò significa morire in una solitudine disperata di CoVid-19 o di overdose da oppioidi.
La fine dell’illusione neoliberista e la reazione populista
Oggi, però, in molti Paesi ricchi, sempre più cittadini esprimono sul piano politico il proprio forte malcontento verso il binomio neoliberismo-globalizzazione, diventato egemone a seguito delle scelte politiche ed economiche «liberali» adottate dalle classi dirigenti occidentali nel corso degli ultimi 40 anni. Vedono che questo binomio non è stato in grado di far materializzare la prosperità tanto promessa e vagheggiata, soprattutto dopo la grande crisi finanziaria del 2008, e che comunque i vantaggi da esso derivanti sono andati e stanno andando in modo sproporzionato ad un ristretto segmento, già ricco e potente, della popolazione – l’1% o il 10% – e delle grandi imprese monopolistiche globali, mandando in crisi la democrazia, delegittimando la politica mainstream e facendo tornare la guerra e l’annientamento della vita umana (per catastrofe nucleare e/o climatico-ambientale) una possibilità concreta. Il neoliberismo libertario permette di vivere la vita come la si desidera, senza intrusioni governative, purché si sia ricchi e potenti. Questo mentre le persone normali che lottano collettivamente (ad esempio, con le organizzazioni sindacali) contro l’austerità e per salari, pensioni, diritti sociali e civili e servizi pubblici migliori si sentono impotenti e si trovano di fronte al potere coercitivo del governo dispiegato in tutte le sue forme (dalle norme anti-sindacali e anti-sciopero alla repressione poliziesca e penale). E mentre il governo interviene altrettanto ferocemente nella vita dei poveri, dei migranti e di tutti coloro che chiedono di accedere al welfare pubblico (sempre meno universalistico e sempre più lavoristico, in un mercato del lavoro sempre più «flessibile» e precario a seguito delle «riforme» che vanno dal «Pacchetto Treu» al Jobs Act), trattandoli come persone immeritevoli della miseria (in denaro e servizi) che ricevono, perché largamente ritenuti privi di «virtù civiche» ispirate all’indipendenza e all’operosità. E mentre i costi e le ricadute negative della maggiore apertura (la globalizzazione economica, sociale, culturale, migratoria/demografica, etc.) tendono a colpire solo le classi medie e quelle operaie e più povere, oltre ad ampi segmenti delle piccole e medie imprese nazionali.
Nei Paesi occidentali, in passato i lavoratori potevano aspettarsi che le loro vite migliorassero e che le vite dei loro figli sarebbero state ancora migliori. Ma, dalla fine del secolo XX, la povertà e la disuguaglianza sono aumentate ed è diventato sempre più difficile riuscire a mantenere il «patto generazionale» per cui ogni generazione fa meglio della precedente. L’aumento dei livelli di povertà è caratterizzato meno da un marcato aumento della mobilità verso il basso che da un «declino della mobilità ascendente». La mobilità verso il basso assume la forma dell’incapacità delle persone che lavorano di migliorare la propria condizione. Per chi è in fondo è sempre più difficile rimettersi in piedi e poter «partecipare alla gara».
La minaccia della disoccupazione, sempre presente nelle famiglie povere, si è diffusa anche alle famiglie del ceto medio, dei professionisti. Una laurea universitaria non rappresenta più una garanzia contro la disoccupazione, e un sistema economico e politico che non è in grado di offrire un futuro ai giovani con un’istruzione superiore è in grossi guai. Se succede solo ai figli dei poveri, il problema è gestibile; ci sono forze di polizia, tribunali e prigioni. Se succede ai figli dei ceti medi, le cose possono sfuggire di mano. I poveri sono abituati ad essere spremuti, a non avere denaro e prospettive di miglioramento della loro condizione, ma negli ultimi decenni anche i ceti medi hanno cominciato a sentire la pressione di precarietà lavorativa, alti prezzi e tasse più elevate e, in molti Paesi occidentali, sono in grande sofferenza ed in rivolta contro l’establishment mainstream.
Oggi, le classi medie e popolari vivono nell’angoscia perché vedono peggiorare le loro condizioni di lavoro e vita. L’angoscia non solo condiziona fortemente la loro libertà di decisione, ma può rendere addirittura impossibile per loro operare una scelta; solo una persona senza paura è in grado di decidere liberamente. Quello che sembra contare per molti è una sorta di «darwinismo sociale», ossia che nella lotta continua per la sopravvivenza, le condizioni di lavoro e vita delle persone di colore, dei migranti, dei poveri e degli altri esclusi, peggiorino più delle loro. Una logica che Amitav Gosh («La maledizione della noce moscata. Parabole di un pianeta in crisi», Neri Pozza, Vicenza 2022: 186-187) estende anche al negazionismo e agli impatti sociali riferiti ai cambiamenti climatici e alla gestione delle pandemie. «È sempre più chiaro che quanti negano la realtà del cambiamento climatico, per esempio le decine di milioni di persone che hanno votato per il presidente Trump, o in Brasile per il presidente Jair Bolsonaro, credono nell’inazione, sia riguardo al cambiamento climatico sia riguardo all’emergenza sanitaria, proprio perché pensano che a pagarne le conseguenze saranno solo persone congenitamente deboli e vulnerabili. La loro soluzione per entrambi i problemi è estendere le ‘zone di sacrificio’ dove i poveri e i non bianchi sosterranno il fardello della crisi planetaria. Non è che un’inedita replica del ‘conflitto mediante inazione ‘che contraddistinse le guerre biopolitiche coloniali». L’importante è potersi sentire superiori almeno a qualcuno in una società dove quasi tutti sono trattati non come dei cittadini, ma come degli «scarti» o, come scriveva Hannah Arendt nel suo capolavoro «Le origini del totalitarismo» (Edizioni di Comunità, Milano, 1996 [1951]), degli «uomini superflui».
Allo stesso tempo, è riemersa con forza una società «patrimoniale» in cui la ricchezza, in particolare la ricchezza dinastica ereditata, è il determinante cruciale delle possibilità di vita delle persone. Troppo spesso ricchezza e disuguaglianze dei redditi sono in una relazione simbiotica con i vantaggi sociali intangibili del successo economico, come capitale socio-culturale e accesso alle reti parentali ed amicali, che insieme influenzano i risultati formativi e gli orizzonti lavorativi delle nuove generazioni, contribuendo a trasformare risultati disuguali di una generazione in opportunità diseguali per la generazione successiva, influenzando tutte le «life chances» degli individui, dall’istruzione all’occupazione, dalla salute alla speranza di vita. I servizi pubblici sono sistematicamente sotto-finanziati o vengono esternalizzati ad operatori privati, con la conseguenza che spesso i più poveri ne vengono esclusi. Ecco perché in molti Paesi ricchi un’istruzione e una sanità di qualità sono diventate un lusso che solo i più abbienti possono permettersi.
I bambini e gli adolescenti sono i soggetti più vulnerabili alle situazioni di povertà ed esclusione sociale, fenomeni che determinano nel presente e nella vita futura una catena di svantaggi a livello individuale in termini di più alto rischio di abbandono scolastico, più basso accesso agli studi superiori e al mondo lavorativo, e più in generale di una bassa qualità della vita. I figli di genitori meno abbienti hanno scarsissime opportunità di carriera nello studio e nel lavoro, soprattutto se da anni collezionano solo lavoretti precari e vivono nelle periferie urbane o in un borgo rurale lontano dai grandi centri metropolitani. Inoltre, il costo degli immobili nelle grandi città è in continua ascesa per l’aumento dei costi dei mutui e degli affitti, alimentando la crisi anche perché da anni in Italia, come in molti altri paesi, non vengono più realizzati alloggi di edilizia popolare, mentre siamo in presenza di una forte tensione speculativa nel settore immobiliare da parte del capitale finanziario, della rendita, dei ricchi e delle grandi organizzazioni criminali alla continua ricerca di opportunità di re-investimento legittimo del loro denaro. Pertanto, le famiglie più povere vengono spinte fuori dai quartieri centrali verso le sterminate periferie delle aree metropolitane sempre più abbandonate dalle istituzioni, allontanandole anche dalle scuole e dai servizi sanitari migliori.
Sono state soprattutto le risposte dell’establishment – o meglio, la loro mancanza – alle questioni economiche e sociali che hanno creato i maggiori problemi a livello sia nazionale sia euro-americano. Un numero crescente di cittadini è insoddisfatto, e sempre più spesso indignato, per le crescenti disuguaglianze e per il modo in cui la globalizzazione economica è stata fatta avanzare dalle classi dirigenti nazionali. Queste, negli ultimi 40 anni, si sono schierate dalla parte del capitale (sempre più oligopolistico o monopolistico), favorendone la mobilità incontrollata (con la deregolamentazione dei mercati finanziari, accordi free-trade, l’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, l’accordo NAFTA, l’Europa di Maastricht, etc.), e contro il lavoro, rendendo quest’ultimo sempre più mercificato, «flessibile», precario, insicuro, non sindacalizzato. Inoltre, il numero di cittadini di origine straniera e non di pelle bianca è cresciuto fino a livelli storicamente senza precedenti in Europa e negli Usa, ma istituzioni, politici e partiti tradizionali hanno prestato poca attenzione a garantire che venissero messe in campo le necessarie politiche e capacità istituzionali per l’accoglienza, l’inte(g)razione interculturale e l’emancipazione in modo da accompagnare e gestire i cambiamenti e le tensioni sociali e culturali che erano in atto (ad esempio, attraverso un’espansione nei servizi di istruzione e programmi di intercultura e di riqualificazione per adulti).
Poco si è riflettuto anche su come sarebbero stati protetti i sistemi di welfare o su come si potesse realizzare l’integrazione nel mercato del lavoro e negli altri ambiti sociali, dando mano libera alle forze di mercato, al perseguimento dell’interesse individuale e alla crescita delle disuguaglianze, e su come si potesse mantenere la coesione sociale, la «fraternità», ossia la solidarietà, la partecipazione e lo spirito comunitario che sono necessari per una sana democrazia e per qualsiasi serio sforzo collettivo. Un numero sempre più ampio di cittadini si sente estraneo al proprio governo e Paese, non va a votare alle elezioni e ritiene che il governo sia corrotto e il gioco economico e politico sia truccato contro la gente comune e favorisca ricchi e potenti.
Dato che le classi politiche mainstream non hanno saputo dare risposte adeguate e voluto cambiare lo status quo, non sono intervenuti sulle crescenti disuguaglianze, non hanno evitato la riduzione di reddito e lavoro (divenuto sempre più precario e malpagato), non hanno cercato di modificare un sistema economico/finanziario iniquo, non hanno smesso di tagliare le spese per scuole, ospedali, infrastrutture, servizi e welfare al cittadino, un crescente numero di cittadini in difficoltà si è sentito abbandonato dai governi, partiti politici tradizionali mainstream, e altre istituzioni (come i sindacati). È alienato, arrabbiato e protesta per la perdita sia della tradizionale sovranità del loro Stato nazionale sia del controllo sulle proprie vite personali, lavorative, professionali, come conseguenza di precarietà, bassi redditi, disoccupazione e indebitamento, nonché per tanti privilegi, scarsa trasparenza e innumerevoli conflitti di interessi che legano i responsabili politici alle grandi imprese, alle grandi lobbies economiche e finanziarie, ai ricchi. Ricorrenti grandi scandali per corruzione, evasione ed elusione fiscale hanno alimentato la percezione che élites politiche e grandi interessi economico-finanziari giocano con regole diverse rispetto al resto della cittadinanza, senza un sufficiente controllo pubblico e una vera legittimità democratica.
L’avanzata della destra populista, nazionalista e reazionaria
Questo ha contribuito a creare un’apertura politica per la destra populista e reazionaria che non solo punta il dito contro il migrante, il perfetto «capro espiatorio» divenuto il simbolo del nemico da cui ci si dovrebbe difendere, trasformando la paura in odio, ma in alcuni casi ha assunto, seppure in modo distorto e spesso strumentale, posizioni che erano state della sinistra socialdemocratica e comunista, compresa la difesa dello Stato sociale, dell’interventismo governativo e dei valori laici, rivendicando più attenzione agli interessi dei settori medio-piccolo borghesi (PMI, imprese a basso tasso di innovazione tecnologica, artigiani, piccoli commercianti, agricoltori, tassisti e professionisti tradizionali) penalizzati dal processo di globalizzazione, e arrivando a raggiungere anche i lavoratori e altri elettori disillusi ed alienati che in un’epoca precedente avrebbero votato per politici e partiti socialdemocratici o comunisti.
L’ascesa globale di un nazionalismo conservatore (e in alcuni casi apertamente reazionario) – sempre più ossessionato dalla difesa dei confini («fermare l’arrivo dei barconi» e imprigionare i richiedenti asilo, deportandoli in Albania, Rwanda o altrove) visti come necessaria salvaguardia contro l’erosione delle tradizionali divisioni di genere ed etniche – sembra avere l’obiettivo di creare forme più statalizzate di capitalismo nazionale e «comunità nazionali» dirette da leaders carismatici indiscutibili che ambiscono a difendere valori nazionali tradizionali speciali, controllare i confini contro i virus dell’immigrazione non bianca, del multiculturalismo e dell’influenza «straniera» (dagli attivisti dei diritti umani ai migranti musulmani, dai terroristi alla grande finanza, dall’Unione Europea al miliardario finanziere e filantropo «globalista» ebreo ungherese naturalizzato americano George Soros). Una deriva che è rapidamente divenuta una minaccia per la democrazia, perché rappresenta la ricetta per la repressione domestica, il capitalismo clientelare, la corruzione massiccia, l’implosione dello Stato di diritto, l’erosione dei diritti individuali e sociali di cittadinanza, l’ascesa di razzismi e conflitti internazionali.
Tra l’altro, con i nazionalisti conservatori e reazionari, così come avveniva con i politici mainstream, le questioni che riguardano davvero la maggioranza della popolazione, i milioni di lavoratori – la riduzione del lavoro stabile, ben pagato e di qualità, le disuguaglianze sociali, la vecchiaia in povertà, l’insicurezza e lo sfruttamento del lavoro, i problemi abitativi, la negazione dei diritti sociali – sono onnipresenti, vengono agitate, ma non vengono realmente agite e affrontate, perché anche questi «uomini nuovi» non mettono in discussione il paradigma economico neoliberista, il modo disumanizzante in cui il capitalismo opera. Non considerano questo il problema, ma la soluzione (come lo era per Clinton e altri governanti progressisti degli anni 90), ancorché declinata in una logica territoriale «sovranista» (perché ritengono che solo nella nazione ci possa essere solidarietà).
Ciò risulta evidente dalle politiche economiche nazionali che finora hanno perseguito una volta saliti al potere: nuove detassazioni per i ricchi, ulteriori deregolamentazioni (anche in campo ambientale) e privatizzazioni, tagli generalizzati ai capitoli di spesa sociale per trasferire le disponibilità alla spesa militare e securitaria. Nessun vantaggio diretto per la classe lavoratrice se non la promessa di una reindustrializzazione da parte delle imprese private incentivate da protezionismo, sussidi e detassazione degli utili.
Questo modo di procedere sul piano economico, insieme alla rimozione della questione sociale dal dibattito politico, è particolarmente pericoloso perché favorisce chi ha già privilegi e punisce i ceti già deboli, allargando le disuguaglianze e contribuendo all’ulteriore ascesa dell’estrema destra. Un circolo vizioso, perché l’ascesa dei nazionalisti di destra non potrà essere interrotta finché non ci sarà una rottura con le politiche neoliberiste orientate al libero mercato che – come Karl Polanyi ha sostenuto nel suo capolavoro «La grande trasformazione» (Einaudi, Torino 2010 [1944]) – distruggono la società e inaspriscono gli squilibri nell’economia globale.
Si tratta di tentativi di sostituire l’ideologia della «globalizzazione felice» o del «globalismo» – che secondo i sostenitori di queste posizioni politico-culturali vorrebbe annullare i princìpi delle identità nazionali, l’esistenza stessa dei confini e sancire il diritto umano di migrare – per dare vita a forme autoritarie, «illiberali», regressive e ciniche («realistiche») di neoliberismo nazionale attenuate da politiche sociali assistenziali tese a lenire le sofferenze di segmenti molto limitati del corpo sociale nazionale.
Da questo punto di vista, il populismo nazionalistico conservatore, se non proprio reazionario ed autoritario, rappresenta il volto politico del neoliberismo in crisi. Risposte illusorie e pericolose ai guasti economici ed istituzionali che aggravano la crisi dei ceti medi e popolari, invece che arrestarla. La crisi e la stagnazione economica hanno spremuto il centro delle società, aumentando le fila dei poveri e quasi poveri, ma hanno anche svuotato il centro della politica, poiché gli elettori hanno smesso di credere che i principali partiti di centro e della sinistra progressista (liberal) abbiano risposte adeguate ai loro bisogni. L’affermarsi dei nazionalisti «populisti» della «destra sociale» rappresenta il tentativo di ri-politicizzare in termini populistici società che si sentono esauste ed impotenti, tentando di riaffermare il primato della politica e dell’economia pubblica su economia e gestione tecnocratica.
Gli «uomini nuovi» del campo della destra reazionaria, ciascuno sostenuto dal proprio «movimento» o «partito personale» privo sia di una vera dottrina sia di un compiuto progetto politico – quasi sempre definiti come «populisti» dai politici e dai media mainstream perché adottano uno stile politico basato su un contatto diretto con «il popolo» (anche se solo con il «loro» popolo, mentre per loro «gli altri» non contano nulla) – cercano di far credere che il ripristino di uno Stato nazionale governato con pugno di ferro (con «i pieni poteri»), dotato di tutti i suoi attributi di sovranità interna ed esterna, capace di chiudere i suoi confini ai migranti, di imporre alla popolazione leggi finanziarie e di mercato più dure e di respingere tutti gli accordi di cooperazione internazionale sul clima, sia l’unico modo per migliorare la situazione sociale della stragrande maggioranza della popolazione. Se le principali minacce diventano i migranti, i nemici «delle nostre origini giudaico-cristiane», George Soros o le importazioni cinesi, questi leader sostengono che sia possibile una nuova politica pro-capitalista su base nazionale (favorita dai processi di «reshoring» e «friend-shoring») che si pone l’obiettivo di tenere fuori il proprio Paese dalle istituzioni e dai flussi non graditi di capitale, merci e, soprattutto, persone – migranti economici, profughi, richiedenti asilo e rifugiati di pelle non bianca – in modo da implementare la propria versione nazionale di neoliberismo conservatore, etnico, razzista, reazionario e autoritario. Un conservatorismo essenzialmente neofascista che aspira ad unire un rinnovato dinamismo capitalista con i valori e le gerarchie reazionarie tradizionali.
In uno studio affascinante, Karen Stenner mostra in «The Authoritarian Dynamic» (Cambridge University Press, Cambridge 2005) che mentre alcuni individui hanno «predisposizioni» all’intolleranza, queste predisposizioni richiedono uno stimolo esterno per essere trasformate in azioni. Le forze politiche del populismo identitario, autoritario e reazionario «attivano» queste predisposizioni alla «reazione difensiva» (all’impulso politico proto-fascista) nella popolazione bianca, alimentando le paure collettive, agitando temi controversi come il razzismo, l’aborto, la possibilità di possedere armi, l’immigrazione e la politica economica austeritaria, e addossando a dei nemici deboli, come i migranti o i poveri o le persone di colore, tutte le cause della mancata realizzazione delle promesse neoliberiste. Così, la compressione dei salari viene essenzialmente spiegata con la concorrenza sleale della manodopera immigrata e non bianca, evitando di prendere in considerazione le tante riforme e controriforme che negli ultimi 40 anni quasi ovunque hanno selvaggiamente deregolamentato il mercato del lavoro ed eroso i diritti dei lavoratori.
Lo storico Eric J. Hobsbawm ha sostenuto nel suo capolavoro «Il secolo breve» (Rizzoli, Milano 1995: 146-147) che «il cemento comune» dei movimenti della destra radicale europea che tra le due guerre portarono al nazi-fascismo (il «regime reazionario di massa», come lo definì Antonio Gramsci), «era il risentimento dei ‘piccoli uomini’ in una società che li schiacciava fra la roccia del grande affarismo da un lato e le asperità dei movimenti in ascesa delle classi lavoratrici dall’altro. Una società che, come minimo, li privava della posizione rispettabile occupata nell’ordine sociale tradizionale, e che essi credevano fosse loro dovuta, e che d’altro canto impediva loro di acquisire all’interno del suo dinamismo uno status sociale al quale si sentivano in diritto di aspirare. Questi sentimenti trovarono la loro espressione caratteristica nell’antisemitismo […]». A conclusioni similari era arrivato anche Heinrich Mann («L’odio», L’orma Editore, Milano 2024 [1933]), il quale aveva analizzato in presa diretta la vittoria di Adolf Hitler che portò al crollo della repubblica di Weimar, concentrandosi sulla sua arma più potente: la rabbia che si tramuta in odio classista, razzista e nazionalista, sostenuto dal terrorismo di Stato, mirato soprattutto contro comunisti, ebrei ed omosessuali.
I radicali di destra di oggi sono animati dall’idea di una sorta di perverso gioco a somma zero che permette loro di sentirsi meglio con sé stessi colpendo gli altri, soprattutto i più deboli sul piano socio-economico, culturale e politico, mentre ritengono che riconoscere agli altri bisogni e diritti propri equivalga a togliere a loro stessi questi bisogni e diritti. È un tentativo di convertire la rabbia, il disprezzo culturale e l’odio sociale in autostima, ma la frustrazione spinge questi reazionari radicali sempre più agli estremi.
La connessione tra neoliberismo e autoritarismo di destra – un «neoliberismo autoritario», in cui la democrazia liberale è ridotta a mera apparenza – ha portato alla ribalta un antintellettualismo emotivo, ideologico, che impedisce qualsiasi discussione sulle idee socialdemocratiche, socialiste e di emancipazione sociale e che giustifica ideologicamente e cementa le forze politico-culturali conservatrici che partecipano al capitalismo neoliberista. Pertanto, un capitalista miliardario come Donald Trump può fingere con successo di essere un eroe della classe lavoratrice e presentarsi come un difensore di persone «reali» contro le élite corporative e dello «Stato profondo». Leader autoritari di destra come Trump, Orbàn, Salvini o Meloni spesso fanno appello alla classe lavoratrice mostrando modi rozzi, un habitus proletario e usando un linguaggio semplice e dicotomico. L’inciviltà è centrale nelle loro strategie di comunicazione: li aiuta a galvanizzare i loro sostenitori ricordandogli quanto sia «cattiva» e «minacciosa» l’altra parte. Ogni volta che gli avversari attaccano i loro leader, i sostenitori sono spinti a difenderli e sostenerli ancora di più. In questo modo, il dibattito pubblico viene deviato dalle politiche concrete, dalla corruzione e da altre questioni sostanziali come la riduzione delle disuguaglianze e della povertà. Un elemento cruciale perché, in realtà, quando sono al potere questi leader ideologici si oppongono agli interessi della classe lavoratrice e attuano leggi che prevedono agevolazioni e riduzioni fiscali (come la flat tax) che avvantaggiano le grandi società e i super-ricchi e danneggiano la classe lavoratrice perché smantellano gli effetti redistributivi dello Stato sociale e dei servizi pubblici.
L’autore: Alessandro Scassellati Sforzolini è ricercatore sociale e attivista, collabora con Transform! Italia. Fra i suoi libri Suprematismo bianco (Derive e Approdi).